L’ordine del discorso nelle politiche sulla nostra vita.
No, forse ci siamo sbagliati. Il dialogo – bella parola eh – c’è. Vogliono parlare con tutti noi. “Confrontarsi”, dicono. Ma su cosa poi? Come studenti che hanno deciso di lottare per opporsi ai saldi di fine estate dell’ERSU non ci ricordiamo di aver desiderato ancora alcun tipo di confronto… mah. Piuttosto, questo sì, vorremmo chieder conto di quanto ci spetta e poi organizzarci per prendercelo. Questo riguarda noi però. Altro capitolo, anzi altro volume.
Capitolo 1. Il mezzo di comunicazione: uso dei social network.
Succede che la Presidente dell’ ERSU, Daniela Noli, decide di interloquire con chi ha iniziato a parlare di un sistema di ruoli, di rapporti di potere e di politiche di impoverimento nella gestione della dismissione del welfare studentesco, anche a Cagliari.
Con uno stile amicale, un’informalità al limite del confidenziale, la Noli decide che il mezzo più adatto per comunicare con “i ragazzi” è facebook. Siamo pure nel tempo del 2.0, o no?
Chissà, forse ha pensato che i social network sono zone franche, innocue perché presidiate da “i giovani” – sì “i giovani”, una di quelle classi anagrafiche che abbiamo scoperto anche essere valide categorie politico-sociologiche quando serve reintegrare in un codice di compatibilità i nostri comportamenti sociali privandoli di qualsivoglia possibilità di significazione autonoma dell’esistente per la trasformazione futura; insomma, quei “giovani” sulla bocca del Francesco Alberoni di turno, l’esperto opinionista (preferibilmente docente universitario) su un qualsiasi noioso salotto televisivo di un assonnato primo pomeriggio. Chissà, pare che i salatissimi “master in pubbliche relazioni” che ci propinano insegnino molto su questo. Su questo? Ah sì, ci insegnano molto su di noi… a noi. Daniela Noli sicuramente ne sa qualcosa, dice di essere stata “formatrice di politiche giovanili”. Figuariamoci se non saprà dirci qualcosa su quello che siamo e che vogliamo.
Sì, forse la Noli non ha riflettuto bene sul fatto che anche i social network sono luoghi in cui si producono discorsi e appartenenze, luoghi dove si costruisce resistenza o si impone accettazione.
Capitolo 2. Relazionarsi e disciplinare entro un ordine del discorso.
Ad ogni modo, la governance nella crisi, ovvero le strategie di dismissione del welfare tramite l’austerity, disciplina le istanze sociali nella relazionalità. La Noli lo intuisce bene questo. Eccola quindi su facebook. Per dialogare, per proporre un discorso, per farlo consumare e consumarci in questo.
Ciò che conta in fondo per la governance è “produrre e far consumare discorso” in modo da risolvere in questa reitarata pratica consumatoria la “mancanza a essere”, del soggetto. Lacan forse si esprimerebbe così. In questo modo infatti parlava del “nuovo discorso”, sostituto del “discorso del padrone”; il “discorso del capitalista”1 per Lacan, il “discorso della governance”, per noi.
I termini della relazionalità del linguaggio allora diventano limiti di applicabilità delle politiche sulla vita proprio perché la vita stessa sulla relazionalità si produce. Allora bisogna organizzare un discorso farlo consumare – più che condividerlo – per produrre forme di vita disposte ad accettare un ordine di declassamento materiale delle nostre condizioni. Le politiche di austerità – la richiesta di sacrifici, si impone anche e soprattutto con un discorso preciso. Il discorso – la sua forma, i suoi vincoli e i suoi interdetti – produce nuovi legami sociali, nuove relazioni di forza e nuove soggettività a queste relazioni assoggettate. “Che cos’è un discorso? È ciò che nell’ordine… nell’ordinamento di ciò che si può produrre grazie all’esistenza del linguaggio, ha funzione di legame sociale”2.
Eppure, in quanto i rapporti sociali possono essere forzati e trasformati, questo discorso sconta i suoi limiti davanti alla potenza autonoma del desiderio dei soggetti che vorrebbe nominare.
Capitolo 3. Ristrutturare l’offerta per pacificare: i limiti della domanda.
Infatti, la governance produce oggetti desiderabili fissando però la scarsità di questi ed organizzandola discorsivamente, affinché sempre ci sia consumo governabile (limite che è anche la dimensione della subalternità della soggettività prodotta). Ogni volta che, nella forzatura dei rapporti sociali, si domanda di più, la governance ristruttura la propria offerta fino a quando questa ancora non viene consumata. Eppure, sempre come osserva Lacan, questa pratica “astuta” è “destinata a scoppiare. Perché è insostenibile (…) va così velocemente da consumarsi, si consuma fino a consunzione”3. Proprio su questo limite: sulla capacità di formulare una domanda non reintegrabile salta la possibilità per la governance di disciplinare i corpi e le vite entro l’ordine del discorso da essa stessa prodotto.
Non solo, c’è la possibilità di pervenire all’ “offerta minima” del discorso della governance portandolo alla sua ristrutturazione ultima. Lo stadio in cui il discorso perde le sue qualità affabulatorie e riduce le sue figure concettuali ai limiti di espressione delle soggettività che produce. Questo è capitato a Daniela Noli, Presidente dell’ERSU, la quale, incalzata da poche domande che presto hanno consumato il suo discorso, si è poi fatta travolgere dalle idiosincrasie del suo ruolo mettendo così a nudo i sitemi di costrizione discorsiva nella concretezza degli obbiettivi funzionali alla formazione di soggetti capaci di consumare solo entro i limiti di ciò che è reintegrabile.
Ecco un saggio del breviario della Noli.
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Appendice: lessico ragionato.
DEMOCRAZIA, significato strumentale. La democrazia è dispositivo di legittimazione che fonda al contempo un piano di accadimento dei fatti – il loro unico mondo possibile – (“Questa si chiama “comunque democrazia”, detto come si dicesse “questa è comunque vita”) la loro inevitabilità e la necessità della loro accettazione e infine la nostra impotente esteriorità rispetto alla sua regola (“risultato che è e resta indiscutibile”). Chi d’altra parte non si definisce “democratico”? Non c’è bisogno di tirare in ballo Benjamin per ricordare alla Noli che la legge si impone sulla violenza e la produzione di diritto (“almeno secondo legge”) si origina temporalmente nella regolazione di forze storiche sempre mutevoli nella loro qualità e nei loro rapporti. I confini del diritto si ridisegnano sulla legittimità politica delle lotte, legittimità che si rintraccia esattamente nella materialità delle nostre condizioni che invece il discorso della governance vorrebbe limitare ed escludere accettando, invece, solo entro la lingua della legalità amministrativa un’espressione politica legittima, quando, al contrario, la prima insegue sempre la seconda.
Come Machiavelli giustificava il delitto fondatore di Romolo – “accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi” 4 – così le lotte e la loro legittimità storica, situata nella materialità delle loro istanze, istituiscono i piani di regolazione di rapporti futuri. È questo, in fondo, il principio eslege che fonda ogni ordinamento positivo. Al contrario, la Noli si serve della parola democrazia e della retorica legalitaria, come un dispositivo capace di accreditare un unico piano di realtà dei fatti. Nulla può entrare nel campo della legge ma tutto ciò che ne sta fuori ne è colpito, e questo dobbiamo accettarlo senza lamentarci (“è giusto che ognuno si senta libero di esercitare una facoltà che gli è stata messa a disposizione andando o meno a votare. ma non si deve poi lamentare sul risultato”).
IL TECNICO e il suo ruolo super partes. (“Io sono e mi considero un tecnico, in primis, con competenze e risultati riscontrabili non a parole, quelle le lascio agli altri”). Il discorso della Noli le ritaglia un ruolo. Il ruolo si qualifica nel curriculum, si palesa una figura classica:fatti non parole, dove i fatti valgono perché compiuti (“esperienza fatta sul campo”) e non abbisognano di giustificazione ulteriore, di parole. La parola è squalificata nel momento in cui può articolare discussione dunque interpretare piani di discorso in conflitto. In breve, davanti ai fatti che sono patrimonio del tecnico, la parola della politica è negata. Proprio nella secessione rispetto alle parole in virtù dei fatti superiori, il tecnico rivendica una posizione super partes, capace di rappresentare tutti (vocazione universalistica), quasi il conflitto tra punti di vista e interessi materiali corrispondenti, fosse un semplice chiacchiericcio della politica e ci possa essere un interesse di tutti esente da un punto di vista situato nelle soggettività concrete e dunque esente da una connotazione politica.
Il curriculum è interpretato come un fatto in sé incontrovertibile, la narrazione generica dei ruoli ricoperti nel mercato del lavoro si cristallizza attraverso la legittimazione performativa data dall’avere svolto quei ruoli stessi, a prescindere da come essi siano stati svolti e da come ad essi si sia pervenuti: così come Monti, per il solo fatto di essere stato un eminente bocconiano e tecnocrate europeo non può essere discusso come economista (è infallibile e ben intenzionato per definizione), così la Noli, per il fatto di essere stata docente universitaria, “formatrice” di politiche giovanili e assessore, non può essere discussa nel suo ruolo di presidente dell’ente regionale per il diritto allo studio.
In questa narrazione, non esiste alcuno spazio per una comprensione degli obbiettivi che informano l’azione della Noli stessa, essi sono implicitamente volti al nostro bene, senza ulteriori specifiche riguardo a cosa questo bene sia. Il nostro ruolo è quello di stare zitti e non disturbare il manovratore, a meno che i canali di selezione differenziale del mondo del lavoro non ci concedano un curriculum adeguato a parlare di noi stessi. Il curriculum diventa in questo modo un capitale iniziale da immobilizzare per poter accedere all’asta in cui si definisce cosa è bene e cosa è male, ovvero per poter avere diritto di parola nell’arena politica. Siamo in una visione del confronto politico che trova espressione di massima coerenza nei sistemi elettorali censitari del glorioso ‘800 liberale.
Il discorso del tecnico è sempre quello che impone sacrificio in nome dell’interesse generale al contempo disinteressandosi e deresponsabilizzandosi rispetto alle condizioni di generazione dei problemi stessi: “Sono il Signor Wolf, risolvo problemi”. Pulp Fiction dell’austerity. Ci dispiace Presidente Noli, non esiste l’interesse generale, sappiamo bene che ogni discorso è situato nello spazio e pronunciato da qualcuno e per qualcuno.
APOLITICITÁ scambiata per apartiticità.La strategia di esclusione che vuole negare nel discorso della governance la parola della politica è portata avanti dalla Noli con la duplice tecnica discorsiva dello scambio (presentare come parola partitica la parola politica) e della conseguente esclusione per l’insostenibilità sulla base senso comune della parola sostituita (quanto la figura del tecnico si legittima sul diffuso – comprensibile – sentimento di rifiuto nei confronti del ceto politico-istituzionale?). “ sembra chiaro che stiate strumentalizzando le cose, in campi e settori quelli partitici, che non mi interessano”.
Ovviamente, l’accusa di partitismo non è solo accusa di parzialità in quanto incapacità di visione generale, ma anche in quanto malevola deformazione della realtà (“strumentalizzazione” la chiama la Noli) per fini particolari differenti da quelli generali. Di nuovo: come se non fosse scontato che si parli sempre e comunque da un determinato punto di vista, come se ci fosse la possibilità di avere un punto di vista generale che non sia, anch’esso, situato nel conflitto tra punti di vista particolari. L’accusa di partitismo (la quale mal si concilia con una rivendicazione del funzionamento degli istituti democratici, ma tant’è), è una clava di senso comune mediatico brandita contro l’avversario in modo da disconoscerne, ancora una volta, il diritto di parola. Dopo averlo negato su basi tecnico/performative con l’esibizione del curriculum, e su basi giuridico/sacrali, con l’esibizione del ruolo, arriva il momento di negare il diritto di parola, di una parola politica, su basi etico/morali.
UNIVERSALISMO nella rappresentazione del corpo studentesco. Come l’appello all’interesse generale agisce contro il punto di vista della parola situata concretamente nel mondo e come l’appello al senso comune agisce contro la parola della politica, così l’appello alla vocazione universalista delle istituzioni nel rappresentare il corpo studentesco e la sua tutela agisce contro il riconoscimento della dimensione soggettiva e singolare delle condizioni materiali (“ in qualità di presidente dell’Ersu sarò il presidente di TUTTI gli studenti, che siano di destra, di sinistra, apartitici, e via dicendo”). Parlare per “TUTTI gli studenti” significa farci attribuire un’identità fittizia costruita su un’astrazione universale. Questo sembra il discorso più comprensivo e ragionevole, eppure, si sa, un concetto quanto più è generale tanto meno è specifico. Infatti è bastato calare la retorica della governance nella vita concreta degli studenti espulsi dalle case chiuse per ristrutturazione (far notare come un rimborso mensile di 200 euro non sia sufficiente per mantenersi in città) per far saltare il discorso della governance e per far correre la Noli ai ripari, per portarla a “dialogare” su Facebook.
Non a caso, proprio nell’ottica di negare la dimensione politica e pertanto conflittuale dei punti di vista singolari situati entro una materialità concreta, l’apoteosi del disconoscimento della parola politica arriva, infine, nel riconoscimento dell’asimmetricità tra l’identità chiara del rappresentante istituzionale e quella oscura della persona qualsiasi che prende parola: “Detto ciò direi che ci siamo detti tutto ciò che avevamo da dire, con la piccola ma sostanziale differenza: voi sapete con chi state parlando e ciò che penso, mentre voi vi nascondete dietro falsi nomi…“.
E’ evidente che la parola detta da un’identità conosciuta valga di più di quella detta da un’identità sconosciuta, perchè, nel mondo della legittimazione attraverso il curriculum, conta più l’emittente del messaggio stesso. Non solo, le parole di tutti (non il TUTTI universalistico della Noli ma quel “tutti” in luogo di “chiunque”) se non hanno un volto e un nome accettato nel discorso, pure se prodotte dal punto di vista delle condizioni singolari, non hanno possibilità di essere riconosciute.
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Nascondersi sotto falsi nomi, laddove il nome di battesimo riconducibile al ruolo sociale parla il discorso della governance, equivale a non nascondersi affatto, bensì, semplicemente, fare un passo indietro rispetto alle funzioni emotiva e conativa del linguaggio, le quali hanno ingoiato completamente tutto lo spazio dell’agire comunicativo della governance, specialmente a scapito della funzione referenziale. Quello che ci interessa è riorganizzare la parola di tutti per istituire un discorso nuovo, capace di organizzare il nostro politico al fine di agire sui rapporti sociali esistenti per una loro trasformazione. Ci interessa procedere con metodo e ciò significa anche proporsi di sottrarre a questa governance “l’appropriazione sociale” dei discorsi sul politico, perché scopo primario di questa governance è la pacificazione ad ogni costo, partendo anche dalla produzione discorsiva, al fine di imporre comunque politiche di impoverimento e gerarchizzazione sociale.
E come direbbe Foucault: “non vi è nulla di sorprendente in tutto questo: poiché il discorso – la psicanalisi ce l’ha mostrato – non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il desiderio; e poiché – questo, la storia non cessa di insegnarcelo – il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi”5.
1 Jacques LACAN, Del discorso psicoanalitico, conferenza tenuta a Milano il 12 maggio 1972, in Lacan in Italia 1953-1978, Milano, La Salamandra, pp. 186-201.