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Ripartire dalla coperta corta delle borse di studio: ci organizziamo per rispondere alle minacce

Cagliari. Il 15 gennaio nella facoltà di Ingegneria si è tenuta un’assemblea studentesca convocata a seguito del caos scatenato dall’ Ersu dopo un ricorso fatto da alcuni studenti per chiedere l’incremento delle borse di studio.

L’assemblea è stata imposta dagli studenti borsisti per chiedere spiegazione del ricorso promosso dalla rappresentanza studentesca, un ricorso rispetto al quale l’Ente per il diritto allo studio, senza mezzi termini, ha risposto con minacce: minacce di rapina.

Infatti, l’Ersu di Cagliari, in seguito ad un ricorso promosso dalla rappresentanza studentesca che vorrebbe dimostrare l’illegalità dell’importo delle borse di studio erogate dall’ente (più basse rispetto al minimo previsto ai sensi del DPCM 2001), ha risposto che avrebbe chiesto la restituzione delle borse di studio ad alcuni beneficiari (circa 300) per poter integrare le borse dei ricorrenti.

Quale strumento ha scelto per notificare una scelta simile? Il più vigliacco: una raccomandata personale.

Durante l’assemblea l’avvocato dell’associazione promotrice del ricorso ha spiegato i termini del ricorso, rassicurando sul fatto che, a termini di legge, l’ERSU non sarebbe in diritto di chiedere la restituzione delle borse. Questo almeno è stato il parere della sua consulenza legale.

Tuttavia ben presto nel corso della discussione è apparso chiaramente come gli strumenti di organizzazione e lotta non possano essere limitati ad un’azione legale. Il reale problema dell’Ateneo, per quanto riguarda le borse di studio, si chiama sottofinanziamento e passa per tutte le politiche che vanno sotto il nome di “spending review”, pareggio di bilancio e austerità. Una sistematica strategia di impoverimento che, sommata ai regali fatti ai privati ed alla curia, mira alla distruzione del welfare studentesco.

Qual è il risultato di queste politiche? Sicuramente un trend crescente del numero di coloro che sarebbero idonei ma per mancanza di fondi non possono beneficiare delle borse di studio; ad oggi la percentuale si aggira intorno al 42% ed è destinata a crescere.

Il numero di coloro che, nonostante meritino e abbiano realmente bisogno di una borsa di studio, non ne beneficiano crescerà sin quando non saremo in grado di bloccare questo sistema nei suoi ingranaggi a noi più prossimi, ovvero iniziando, come deciso dall’assemblea, con l’organizzarci per rifiutare le minacce di chi vorrebbe dirci che per noi la possibilità di costruirci un futuro non è più garantita.

A partire dall’assemblea di ieri nei prossimi giorni verrà redatta una lettera collettiva indirizzata all’ERSU in cui tutti, come studenti borsisti, idonei non beneficiari e ed esclusi dalle graduatorie, manifesteremo di non aver gradito affatto le minacce che ci sono state rivolte via raccomandata.

Noi, come collettivo, non possiamo che opporci ai ricatti di un ente, l’Ersu, che ha deciso di gettare la maschera e preferisce perdere la faccia ricattando gli studenti e cercando di creare un vuoto intorno a chi lotta, invece di esigere dalla Regione i soldi che spetterebbero agli studenti. Inoltre lanciamo un appello a tutti coloro che hanno ricevuto la raccomandata Ersu: mettiamoci in contatto per andare a lanciarle in faccia al mittente.

Non una borsa indietro, nessun altra minaccia!

Verso un appuntamento di lotta!

 

La coperta corta delle borse di studio

Snoopy Walking LinusIl ricorso al T.A.R. e la costruzione delle lotte contro l’impoverimento.

La questione sollevata dal ricorso al T.A.R. Sardegna, promosso dalla lista maggioritaria della rappresentanza studentesca, contro il mancato rispetto da parte dell’ERSU degli importi minimi delle borse di studio, scopre le falle di sistema degli strumenti di garanzia sociale dentro la crisi. Il corto circuito innescato dal ricorso e dalla conseguente risposta dell’ente per il diritto allo studio ci parla del carattere di una nuova governamentalità della cosa pubblica, fatta di austerità e amministrazione della povertà come dispositivi di controllo e segmentazione sociale.
Ricostruiamo la vicenda per come si è sviluppata fino ad ora.

 Gli importi minimi delle borse di studio fissati dal Decreto Ministeriale del 22 maggio 2012 non sono rispettati dall’ERSU. Si legge in una nota del 5 dicembre 2012 di Unica 2.0: “Tra l’importo previsto nel “Bando di concorso per l’attribuzione di borse di studio e di posti alloggio a.a. 2012/2013” dell’Ente Regionale per il Diritto allo Studio Universitario di Cagliari, e quello stabilito dal decreto ministeriale, vi è una elevatissima differenza di 1.285,40 euro, superiore al 35% dell’importo della borsa. Per le borse di studio degli studenti PENDOLARI vi è invece una differenza di 658,27 euro ed infine per quelle degli studenti IN SEDE vi è una differenza pari a 450,95 euro.”
Tutto vero, certo. Ma cosa succede se si ricorre al T.A.R.?

 Lo spiega l’ERSU in un avviso apparso sul sito dell’ente il 19 dicembre: “Si precisa che i pagamenti sono disposti in pendenza del ricorso giurisdizionale, presentato al TAR Sardegna da alcuni beneficiari, per l’annullamento della graduatoria di assegnazione delle borse di studio e del presupposto bando di concorso, nella parte in cui sono stati previsti gli importi unitari delle borse di studio (art.12).
Qualora il ricorso venisse accolto, e dovesse essere deciso di incrementare gli importi minimi delle borse di studio, l’Ente dovrà riformulare le graduatorie con conseguente diminuzione del numero dei beneficiari.
Pertanto, in caso di decadenza dalla titolarità della borsa di studio, l’Ente si riserva di chiedere la restituzione delle somme ai beneficiari.”

 L’ERSU si deresponsabilizza completamente. Risponde che lo stanziamento di fondi per l’anno in corso non può essere rivisto perché lo stanziamento è competenza della Regione Sardegna. L’ERSU inizia allora a recapitare – con non molto criterio – avvisi via e-mail e tramite raccomandata un po’ a tutti i beneficiari, minacciando con questi di imporre la restituzione delle borse. L’ente per il diritto allo studio sceglie comunque la via dell’intimidazione per testimoniare del proprio svuotamento e della propria impotenza, ponendo sotto ricatto e gettando nell’incertezza centinaia di studenti e studentesse che molti di quei soldi già li hanno spesi o contano di spenderli per pagare gli affitti, rinnovare gli abbonamenti ai trasporti pubblici, comprare i testi, mantenersi in città.

 Il ricorso ha fatto emergere un fatto: le borse di studio sono come una coperta troppo corta, in troppi rimangono scoperti (quest’anno il numero degli idonei non beneficiari raggiunge il 42% del totale degli aventi diritto) e se si pretende una coperta migliore la maglia sarà più fitta ma la coperta più corta, scoprendo sempre più persone.
La verità è che in questo frangente assistiamo con chiarezza a un conflitto latente nella crisi, il conflitto tra ordine del comando politico-finanziario fatto di taglio alla spesa pubblica, vecchi istituti del welfare e legge che regolava questi istituti.
La retorica della rappresentanza studentesca, o comunque di qualsiasi soggetto non antagonista al sistema in ristrutturazione, per quanto critico rispetto a questo, si serve della figura del diritto: bisogna “difendere i diritti degli studenti”, dicono. Eppure succede che appellarsi alla legge, ricorrere al T.A.R., diventa non più la possibilità di ristabilire un diritto secondo la norma ma, anzi, la certezza di svelare il carattere del comando finanziario radicalizzandone la violenza e questo poiché il diritto è espressione di una legge ineffettuale, norma di rapporti non più esistenti che produssero uno stato sociale non più soddisfacibile perché è venuto meno il patto che lo fondava.

 Davanti a questo, politicamente, non conta tanto “assumersi responsabilità morali”, quanto piuttosto è importante assumere integralmente il piano imposto dal nuovo comando, dotarsi di nuovi strumenti. Infatti il corto circuito innescato dal ricorso mostra come l’insufficienza degli attuali istituti welfaristici non risieda nella loro cattiva gestione.
Il sottofinanziamento strutturale ci parla di un preciso indirizzo il quale però, proprio perché ristruttura il significato e la natura di certi istituti, non può essere aggredito e combattuto politicamente per il verso dell’appello alla legge che normava uno stato di cose ormai sospeso dalla materialità dei rapporti esistenti. E allora è inutile appellarsi ai diritti impossibili sanciti da leggi ineffettuali, a meno di non misurarsi con le contraddizioni tra piano di diritto e piano di fatto delle cose. Raccogliere la sfida, rifiutare questi rapporti sostanziati dall’ingiunzione al sacrificio, vuol dire necessariamente passare per la costruzione di nuove istituzioni, il che direttamente significa costruirci le nostre garanzie, ovvero produrre relazioni capaci innanzitutto di resistere a chi ci impone di restituire, non ciò che è un nostro diritto, ma ciò che ci serve.
Fronteggiare sullo stesso piano il comando dell’austerità finanziaria sulle nostre vite significa allora innanzitutto fronteggiarlo opponendogli un contropotere fatto di relazioni nuove che ponga al centro la volontà di riappropriarsi della ricchezza sociale passando per il rifiuto di tutto il sistema di produzione dell’impoverimento, individuando dunque Regione e ERSU come controparti immediate.

 Il 9 di gennaio si terrà la prima udienza al T.A.R. in camera di consiglio. Costruiamo i momenti di incontro per organizzare le forme della nostra opposizione, costruiamo un’assemblea dopo l’udienza. Non una borsa indietro, costruiamoci le nostre garanzie!

Collettivo Universitario Autonomo Casteddu

#19D. TIFIAMO RIVOLTA!

 

 

 

 

Oggi siamo scesi in piazza insieme agli studenti medi in mobilitazione per dare continuità al lavoro politico iniziato e che ha avuto come tappe fondamentali quelle del #14N, del #24N e del #19D.

Autonomi ed autorganizzati abbiamo deciso di non richiedere l’autorizzazione del percorso alla Questura, per esprimere la nostra contrarietà ad ogni forma di dialogo con coloro che sono complici dell’attuale sistema di potere. Non riteniamo rispettabile una legge  come quella che proibisce le manifestazioni non autorizzate, emanata nel 1931, apice della repressione del fascismo.

 

Abbiamo deciso di recarci davanti alla sede dell’Assessorato alla Cultura, complice delle politiche di taglio al diritto allo studio e al sistema del welfare e di occupare i binari per esprimere il nostro disagio attraverso forme di sciopero che vadano oltre la classica passeggiata e che creino un reale disagio contro chi lo vuole imporre sulle nostre stesse vite. Dall’Assessorato alla Regione attacchiamo tutte quelle rappresentanze istituzionali che, svuotate e rese strumento del nostro impoverimento, distruggono le nostre prospettive di vita. Non abbiamo intenzione di fermarci, ma di costruire un nuovo progetto politico attraverso forme di riappropriazione dal basso.

 

“Noi tifiamo rivolta!” perché solo attraverso nuove metodologie che scavalchino il sistema della rappresentanza potremmo costruire una reale alternativa.

 

 

STAY TUNED!

STAY HUNGRY!

STAY REBEL!

 

Cagliari. #19D: gli studenti bloccano tutto!

Oggi, #19D, il movimento degli studenti medi cagliaritani è sceso in piazza per ribadire il proprio NO ai tagli al sistema dell’istruzione e al sistema welfaristico.

Gli studenti delle scuole in mobilitazione hanno deciso di convocare il corteo odierno per esprimere il proprio dissenso nei confronti di un progetto politico volto allo svuotamento del pubblico a tutto vantaggio dei privati (vedi DDL Aprea).

Il corteo, autonomo ed autorganizzato, nasce come continuazione del lavoro politico avviato nelle scuole che, con le giornate del #14N, del #24N e del #14D ha portato alla nascita di un movimento desideroso di costruire un nuovo progetto per la riappropriazione del proprio futuro. Non a caso gli istituti con maggiore presenza in piazza (Michelangelo, Dettori, Siotto, Giua, Alberti, Brotzu, Pitagora, Eleonora d’Arborea) provengono dalle recenti esperienze di occupazione, autogestione e blocco della città che hanno preparato questo corteo. Non di secondaria importanza l’elemento di rottura evidenziato fin dalla natura della convocazione del corteo che ha scelto di manifestare senza autorizzazione e ha visto una partecipazione molto più nutrita rispetto a un secondo corteo studentesco, al contrario autorizzato, convocato in piazza Giovanni XIII. Non c’è da chiedere il permesso a nessuno quando la volontà politica è chiaramente quella di bloccare l’esistente per crearsi gli spazi della sua trasformazione.

Radunatisi in Piazza Yenne, gli studenti hanno deciso di raggiungere l’Assessorato Regionale alla Cultura, complice di queste politiche di ristrutturazione del sistema della formazione. Il corteo selvaggio forte di 3000 presenze, si è snodato per le strade del centro cittadino cagliaritano: Largo Carlo felice, Via Roma, Viale Trieste. Non ha desistito inoltre di fronte al tentativo di pressione esercitato dalle forze dell’ordine, dando un chiaro segnale di scelta e maturazione politica liberandosi dal controllo della polizia cambiando più volte percorso e rendendo illeggibili alla digos le proprie intenzioni. Arrivati davanti all’Assessorato ci sono stati alcuni momenti di tensione causati dalla pressione esercitata sui manifestanti che volevano entrare dentro la struttura.

Al grido di “Occupiamo anche la stazione” i compagni mossi da un entusiasmo che va ben oltre la “canonica” passeggiata mascherata da manifestazione studentesca, si è mosso con il deciso intento di occupare i binari della stazione di Cagliari. Occupare tutto, bloccare tutto: questo è il sentimento reale e vivo degli studenti medi, l’unica reale opposizione al disagio imposto alle stesse soggettività studentesche. Percorrendo i binari fino ad arrivare alla stazione centrale di Piazza Matteotti al grido di “Noi la crisi non la paghiamo” il corteo ha raccolto al solidarietà dei passanti, molti dei quali si aggiungevano alla voce dei cori che rimbombavano nella stazione dei treni.

Abbandonati i locali della stazione di piazza Matteotti, il corteo non ancora sazio, si è diretto verso la sede del Consiglio Regionale Sardo in via Roma davanti al totale sbigottimento delle sfiancate forze dell’ordine. Il corteo ha sostato sotto la regione scaldando gli animi al grido “Occupiamo anche la Regione” e cercando di forzare gli ingressi, generando qualche tensione con le forze di polizia, per esprimere la volontà di riappropriazione del proprio futuro.

Dalla Regione il corteo selvaggio ancora affamato di azione si è diretto di nuovo verso Piazza Yenne, lì da dove era partito, dove davanti alla statua imperante di Carlo Felice alcuni compagni hanno esposto lo striscione: Tifiamo Rivolta!

Tifiamo rivolta contro il disagio della crisi, delle misure di austerity.

Tifiamo rivolta a favore del disagio creato dai cortei selvaggi che si battono contro l’impoverimento partendo dalla riappropriazione e dall’antagonismo,nell’imprevedibilità sulle modalità di sciopero e blocco. Quel retorico disagio che le istituzioni utilizzano per nascondere il vero disagio che loro stesse hanno creato.

Il corteo di oggi ha fatto un passo in avanti rivoltando lo stesso significato di disagio contro chi questo disagio ce lo impone. Per questo ha scelto di rilanciare con un’assemblea pubblica, convocata per domani alle 18 al liceo classico Siotto, in cui chiamare a un confronto e a una discussione sul futuro e le prospettive della mobilitazione anche docenti e studenti universitari.

                                                                               

                                                                   Noi non ci scusiamo per il disagio. Tifiamo Rivolta!

Il virus dell’austerità contagia la sanità.

Monti mani di forbice

Questa mattina, 28 novembre, i lavoratori dei servizi di pulizie dell’ospedale Santissima Trinità hanno organizzato un sit in di protesta di fronte ai cancelli della struttura ospedaliera, per opporsi alle misure adottate dalla nuova ditta appaltatrice.

Il I novembre, in seguito alla nuova gara d’appalto vinta dalla Ecoclean s.r.l. per i servizi di pulizia dell’AO Santissima Trinità, 17 lavoratori (già messi in cassa integrazione a decorrere dal I aprile 2012 dalla ditta uscente – la Pulitutto Cefil) non sono stati reintegrati. A fronte della mancata riassunzione dei 17 cassintegrati, che vedevano un contratto part-time di 4 ore giornaliere, la ditta ha assunto 13 nuovi impiegati con un contratto di lavoro di 8 ore giornaliere. Questi nuovi assunti coprono così le ore di servizio che dovrebbero essere espletate dagli attuali 17 disoccupati. È questo il maggiore motivo di indignazione manifestato dai lavoratori rimasti senza occupazione.

Così come nel comparto lavorativo della formazione (ricordiamo la diminuzione delle ore e dunque dello stipendio mensile per i lavoratori del portierato e multiservizi – bibliotecari, archivisti – avvenuto in occasione della nuova gara d’appalto indetta dall’Ateneo Cagliaritano per la gestione esternalizzata di questi impieghi), anche nel mondo della sanità assistiamo allo smantellamento del sistema welfaristico, che si realizza in un programma di tagli costanti e crescenti alla spesa pubblica. Concretamente questa tendenza si attua, da un lato, attraverso un definanziamento dei soggetti pubblici preposti a garantire i servizi di prima necessità sociale e, d’ altro lato, attraverso lo svuotamento del pubblico stesso, il quale delega la gestione delle garanzie sociali a soggetti privati.

Queste le conseguenze delle politiche di austerità adottate dal governo tecnico in linea con le misure imposte dalla troika europea. Le dichiarazioni del Presidente Monti, apparse ieri sui giornali, sono emblematiche del programma di distruzione totale dello stato sociale. Capiamo immediatamente quali siano i “nuovi modi di finanziamento” pensati dal Primo Ministro per la sanità pubblica : un’ ulteriore ingerenza dei privati all’interno del pubblico e/o una maggiore pressione fiscale su una popolazione sempre più impoverita. Nuovi modi di finanziamento che sono previsti per tutta la gestione dei servizi fondamentali, dalla sanità all’istruzione. Minori sono i servizi garantiti, maggiore è l’impoverimento e l’indebitamento sociale.

Le lotte contro i tagli alla sanità sono quindi fattore di ricomposizione sociale, in quanto interrogano i bisogni e desideri di tutti i soggetti, partendo dai lavoratori del sistema sanitario, siano essi dipendenti delle pulizie, operatori socio-sanitari, infermieri e medici, arrivando agli utenti.

La lotta dei 17 lavoratori è una lotta che ci appartiene: è la lotta per il nostro diritto alla salute, e non siamo disposti a chinare il capo.

Abitare la crisi. Incontro e confronto con modelli alternativi di garanzia sociale.

L’insoddisfazione dei nostri bisogni sociali all’interno della crisi ci impone la necessità di costruire nuove forme di tutela che partano dal rifiuto della delega alle istituzioni ormai incapaci di garantire il sistema welfaristico e che passino per il protagonismo dei soggetti sociali. A questo proposito nasce l’iniziativa Abitare la crisi, incontro-dibattito (organizzato dal CUA insieme ad alcuni ragazzi dell’Assemblea per la Riappropriazione del Welfare Studentesco, con la partecipazione dei compagni del Progetto Prendocasa Pisa) sul problema abitativo generato dalla speculazione edilizia e dall’inefficienza volontaria degli storici dispositivi di tutela dello stato sociale.

Il problema dell’abitare si fa sempre più pressante in un contesto diffusamente impoverito e indebitato come quello cagliaritano, teatro nel mese di giugno dello sgombero di due Case dello Studente (Via Montesanto e Via Roma) condotto con violenza da parte dell’ERSU (Ente Regionale per il Diritto allo Studio), chiuse poi nel mese di agosto per inagibilità. L’ERSU è stato capace di produrre una condizione emergenziale attraverso l’incuria nella manutenzione degli stabili, condizione utilizzata per giustificate le insoddisfacenti misure adottate: delega a privati nella gestione del diritto abitativo (siano essi impresari o il College di Sant’Efisio, struttura di proprietà della Curia finanziata con oltre 19 milioni di fondi pubblici) e monetarizzazione dello stesso. L’Ente ha di fatto smantellato il servizio di garanzia, concedendo poi delle briciole facendo credere di aver ripristinato la normalità del servizio. Si tratta di una precisa manovra finalizzata a sedare gli animi a fronte di una palese ingiustizia. Non si può non pensare alla Verdi 15, residenza universitaria occupata per rispondere alle esigenze dei ragazzi che si sono trovati in mezzo a una strada in seguito alla chiusura di un’altra Casa dello Studente, la cui vicenda ha occupato le cronache nazionali in seguito allo sgombero.

“Quali risposte si possono dare di fronte a questo svuotamento del pubblico al servizio dei privati?” è la domanda fondamentale da cui ognuno di noi deve partire. In tal senso, è utile prestare attenzione alla testimonianza di Simone, uno dei compagni del Progetto Prendocasa Pisa. La realtà di Prendocasa nasce nel 2007 per dare nuova progettualità a forme di lotta già esistenti nel contesto cittadino pisano. E’ in atto un vero e proprio progetto di impoverimento sociale, imposto da coloro che, pugnaci difensori del liberismo economico, consentono che, in una città come Pisa, l’affitto di una doppia costi non meno di 300 euro, e che oltre 5000 case restino sfitte. La tendenza è quella di accettare passivamente la condizione presente. Ma, come ci testimonia il caso pisano, ci sono altre possibilità. Prendocasa, infatti, non è un caso isolato, ma uno dei tanti progetti portati avanti per la difesa del diritto abitativo, attraverso la creazione di sportelli e di una rete di solidarietà che oppone resistenza agli sfratti. Ma affinché progetti di questo tipo abbiano successo è fondamentale la partecipazione di tutti coloro che, studenti, insegnanti, operai, immigrati, sognano un futuro diverso, impegnandosi in una lotta di riappropriazione dal basso.

Punto di partenza, come CUA, è quello della riapertura degli spazi in università, un tempo luogo di confronto e socializzazione e oggi ridotti a meri “esamifici”. Parola d’ordine è quella della “radicalizzazione della normalità”: i nostri bisogni sociali, nel momento in cui il patto capitale-lavoro è saltato, necessitano di pratiche di riappropriazione dal basso che noi dobbiamo essere in grado di attuare e socializzare e che i diversi soggetti sociali devono interiorizzare come forme di lotta non stigmatizzabili, ma giustificabili in quanto riconducibili a bisogni e desideri primari.

#24N Cagliaritano. Don’t be choosy, choose the rebel side!

#24N CagliariOggi, 24 novembre, il movimento studentesco cagliaritano è sceso in piazza insieme a operai               del Sulcis, precari della scuola e docenti di ruolo per dire “NO” alle politiche di austerità, alle logiche del profitto capitalista, cause prime dello smantellamento del sistema welfaristico che si traduce nell’impoverimento sociale. Atti come il lancio di uova riempite con vernice colorata contro la Banca del Credito Sardo e contro il Palazzo del Consiglio Regionale simboleggiano il nostro rifiuto del sistema creditizio – strumento di impoverimento – e delle politiche regionali complici della dismissione dei servizi di tutela sociale, della trasformazione e della privatizzazione del pubblico in terreno di speculazione a vantaggio di pochi. Allora sappiamo che immediatamente opporci a queste politiche significa costruire reti sociali e immaginarci comunemente la costruzione di un futuro che non passi per gli stessi soggetti – tecnici, politici e uomini della finanza – che ce lo stanno oggi negando.

Per questo, per il 30 novembre, abbiamo deciso di indire un'”Assemblea pubblica verso lo sciopero del 6 dicembre“, giornata di mobilitazione nazionale, con l’intenzione di ricomporre il mondo della formazione e del lavoro in un percorso di lotta comune.

 

Collettivo Universitario Autonomo Casteddu

Collettivo  Autonomo Studenti Casteddu

Cagliari sta con la Verdi 15 occupata!!

Siamo vicini ai compagni e alle compagne della Verdi 15, residenza universitaria che da mesi ospitava studenti e studentesse, che stamattina verso le 10 è stata assoggettata a sgombero forzato: la polizia ha fatto irruzione all’interno dello stabile cogliendo di sorpresa i residenti, che sono stati identificati e mantenuti nella struttura senza possibilità di dialogare con l’esterno. La residenza autogestita era diventata un’idea diversa di politica e di socialità, che andava contro le manovre di impoverimento e di austerity. L’occupazione dello stabile, un’ex casa dello studente al centro delle speculazioni edilizie, era nata dopo lo sfratto prepotente eseguito dall’Edisu contro due ragazzi tunisini per decadenza del diritto all’abitare in una residenza universitaria.

La Verdi 15 è una realtà che è riuscita a dare una risposta alla situazione di impoverimento degli studenti, situazione che ha fatto nascere in loro l’esigenza di riprendersi il diritto allo studio negatogli e di occupare la struttura.

Studenti che così si rifiutano di diventare quella figura soggettiva che ormai investe l’insieme dello spazio pubblico: la figura dello studente indebitato.
Studenti che non vogliono piegarsi al ricatto del default del debito, che porta al taglio dei servizi sociali e mette il welfare al servizio delle imprese, attraverso la privatizzazione di qualunque cosa.

L’occupazione ha permesso a tante persone di usufruire del diritto abitativo, di partecipare a gruppi di studio autogestiti (cineforum, corsi di musica, corsi di lingue, scambio culturale con ragazzi stranieri), di usufruire di numerosi servizi, come quello della ciclo-officina, nonché – per i ragazzi dell’Accademia di Belle Arti e del Conservatorio – di utilizzare spazi per le attività di studio che altrimenti non avrebbero potuto esercitare. Ciò che accomuna la Verdi 15 con tutte le realtà contro la distruzione del welfare, è la determinazione nel lottare contro chi, giustificandosi dietro lo stato emergenziale del momento, porta avanti politiche di smantellamento della categoria del diritto allo studio come frontiera della dismissione del welfare.

Qua sta la forza della Verdi 15!
Con la sua lotta cerca di far crollare quel vecchio e stanco meccanismo di gestione della “cosa pubblica” che cerca di rinnovarsi nell’attuale contesto della crisi, producendo una figura sociale segmentata, svalorizzata e impoverita.

La Verdi 15 non potrà mai essere sgomberata perché è riuscita a gettare le basi di un’alternativa comune per quegli stessi studenti che si sono ritrovati “impoveriti”, così a Torino come a Cagliari, come in qualsiasi altro posto in cui si cerca di costruire una comunità in lotta.

Come CUA Casteddu esprimiamo la nostra solidarietà verso i compagn* della Verdi 15.

NOI siamo la resistenza contro la crisi, noi siamo una realtà che pratica e sperimenta l’alternativa.
NOI siamo la riappropriazione di una spazio pubblico contro la privatizzazione delle vite di tutt*.
NO AI TAGLI alle borse di studio, a scuola e università pubblica, agli asili e a tutto il comparto del sociale!

“Riprendiamoci i nostri spazi. Al fianco dei ragazzi della residenza universitaria Verdi 15 Occupata.”

PRODUCI, CONSUMA, CREPA! Il destino dello studente moderno

Nuovo anno accademico, nuove tasse, nuovi attacchi agli studenti!

Francesco Profumo, ministro dell’istruzione, Università e Ricerca:<< I fuoricorso hanno un costo anche in termini sociali >>

F.P. << Un po’ di bastone e carota. Questo è un paese che ha bisogno di essere trattato in questo modo. E dobbiamo avviare questo processo >>

Michel Martone, viceministro del lavoro:<< Dobbiamo dire ai nostri giovani che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa >>

Questa e altre dichiarazioni sono mirate alla criminalizzazione dello studente “non meritevole”, ennesimo stereotipo ideologico, come il disoccupato fannullone o il privato virtuoso, da usare come ariete di sfondamento delle poche barriere rimanenti a difesa del diritto allo studio.
L’università di Cagliari, in linea con i provvedimenti adottati dal sistema universitario Italiano, inserisce sovrattasse. A cosa servono? Ad eliminare i “perditempo” o ad ingrassare i conti?
La parola d’ordine è “meritocrazia”.

Emergono dal regolamento tasse (a pagina 10, link qui):

“sovrattassa di discontinuità”: gli studenti inattivi, ovvero coloro che nel corso di un semestre non superano almeno un esame, dovranno corrispondere per ogni semestre di inattività una tassa dal valore di 50€.
Questa tempistica non corrisponde a quella interna dell’organizzazione di ogni corso generando disagi e complicazioni. Un’ulteriore conseguenza è lo scavalcamento dell’autorganizzazione del singolo studente, limitandone l’organizzazione dello studio in base alle proprie esigenze, per esempio un lavoro che gli garantisca un reddito minimo necessario al mantenimento degli studi).

“Incremento tassa base per numero CFU conseguiti inferiore alla media del Corso”, determinata in base al numero di CFU dati in un anno: se il numero di questi è inferiore alla media dei crediti conseguiti dagli altri studenti del corso, si è “multati” con una sovrattassa del 10% sulla tassa base, non c’è scampo neanche per gli esentasse, che dovranno comunque pagare la sovrattassa calcolata sulla tassa base minima. Lo strumento della media, infatti, garantisce per sua stessa definizione la presenza di studenti al di sotto di tale media assicurando di fatto un’entrata sicura nel bilancio universitario già abbondantemente pagato attraverso le tasse (20?? milioni di euro dati dagli studenti dell’università).

Tutto ciò viene giustificato come adattamento al sistema meritocratico, stimolando così impegno e dedizione, creando soggetti produttivi integrati in sistema e società.

Esiste però un’altra chiave di lettura, quella dove il termine meritocrazia si traduce in creditocrazia: in un sistema meritocratico si applicano delle dinamiche volte alla creazione di soggetti sociali conformi al sistema economico-produttivo.
Ci troviamo davanti ad un vero e proprio processo di aziendalizzazione dell’università: i crediti diventano lo strumento di valutazione dell’efficienza produttiva dello studente, fagocitato all’interno del sistema del debito (che da formativo diventa reale, spianando la strada ad un classismo che puzza di vecchio). Con il sistema del “paghi per studiare”, “meno studi più paghi”, il livello di formazione è determinato prettamente in base al numero dei crediti, si sta premiando chi produce di più sulle spalle di tutti gli altri. Le contraddizioni più esplicite nascono da una situazione non paritaria di partenza, dovuta ad esempio a condizioni socio-economico-culturali precedenti, successivamente aggravate da questi metodi che conducono alla creazione di disparità tra gli studenti. Coloro che occupano i gradini più bassi, sono destinati all’ingresso in un labirinto senza uscita: l’impossibilità di colmare la distanza che nel peggiore dei casi porta all’abbandono degli studi. È questa l’università pubblica? Non si sta garantendo un servizio decente, e tanto meno lo si sta garantendo a tutti.
La dinamica del “punirne cento per premiarne uno” stimola la competizione secondo principi che trasformano la meritocrazia in creditocrazia, insomma, una “gara per l’impiegato dell’anno” che vede i crediti come unici strumenti di valutazione.
L’università viene privata del ruolo di servizio per diventare un luogo di produzione: gli studenti devono produrre (rendere bene e guadagnare crediti) o in alternativa pagare (chi può permetterselo).
Il fuori corso è diventato il nemico numero uno dell’università, da additare come costo sociale, che impedisce al mondo della formazione di migliorare il suo servizio, e da sfruttare come fondo cassa necessario al risanamento dei bilanci degli atenei.
Ci si pone nuovamente una scelta importante da prendere: continuare a lamentarci per i servizi sempre più scadenti, per le borse di studio in continua diminuzione e per le tasse sempre più onerose, o si può iniziare a reagire a questo stato di cose istruendoci, agitandoci e organizzandoci per riappropriarci di ciò che ci spetta e affermare che questa crisi non l’abbiamo voluta, non l’abbiamo creata e non abbiamo nessuna intenzione di pagarla.

Il nesso tra accreditamento e riproduzione nella creazione del debito studentesco

Le parole di uno studente sull’imporsi del debito a partire dalla selezione universitaria

Un’ipotesi di conricerca, incontro e costruzione di lotta partendo dai test d’ingresso.

Cosa significa parlare di indebitamento studentesco? Per il futuro prossimo possiamo ragionevolmente prevedere la sopravvivenza – sebbene in forma sempre più sottofinanziata e monetizzata – degli istituti tradizionali di beneficio per il diritto allo studio (borse, alloggi, ristorazione, agevolazioni nella tassazione etc.) in favore dei “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi”. Eppure, accanto alla spettralizzazione del welfare, si scorge avanzare un complesso di dispositivi sempre più invasivi di finanziarizzazione dell’auto-garanzia della formazione e della possibilità della formazione.

La dicotomia diritto/possibilità alla/della formazione articola una segmentazione interna a una medesima composizione, al fine di estrarre plusvalore direttamente dalla riproduzione sociale della stessa composizione. Agiscono infatti due processi opposti e complementari di valorizzazione capitalistica, nella fabbrica cognitiva: la produzione e la riproduzione di soggetti formati, ovvero l’investimento su un capitale umano e la sua rendita. Il primo è garantito come un diritto sub conditione dimostrando merito, crediti maturati alla mano; il secondo è un accesso – come una possibilità – a un circuito di valorizzazione comunque limitato.

Si tratta infatti di moltiplicare gli sbarramenti. Creare artificiosi debiti formativi significa creare e alimentare un sistema dell’accreditamento continuo al quale viene legata la possibilità della riproduzione materiale della propria condizione. Per continuare a studiare e colmare il debito formativo si finisce per indebitarsi concretamente. In questo passaggio, nel nesso tra accreditamento e riproduzione, si produce, in maniera coatta, una soggettività indebitata. La riproduzione è funzione dell’accreditamento e può esser soddisfatta solo da un indebitamento materiale.

I test non selettivi per i corsi di laurea triennali non a numero a chiuso – altro capitolo analogo andrebbe aperto sui test dei corsi di laurea a numero chiuso – rispondono esattamente a questa logica. Se non superati i test impongono inoltre l’iscrizione d’ufficio al tempo parziale. Si tratta di un altro meccanismo di disciplinamento dei tempi di studio e di lavoro: uno sbarramento che rinvia, entro una misura ad hoc, il traguardo dell’accreditamento affinché l’ateneo, nella sua “contabilità”, non si trovi con troppi “fuori corso”, risultando in questo modo “non virtuoso” e dunque non beneficiario della ripartizione della parte premiale del fondo di finanziamento ordinario statale.

Ecco gli effetti concreti, sulla materialità delle nostre condizioni, delle politiche d’impoverimento dell’università. Altro che una nominale “difesa della cultura”, verrebbe da dire…

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Discutendo con Thomas – vent’anni, studente di Lingue a Cagliari – abbiamo potuto rintracciare, attraverso una storia concreta, la materialità di uno di questi processi di indebitamento e dei dispositivi connessi.

Racconta Thomas: “io ho maturato il debito al test d’ingresso per quanto riguarda tedesco e la risposta che mi è stata data dalla segreteria o dalla docente – non mi ricordo – è stata che essendoci stati pochi studenti ad aver conseguito il debito in tedesco al test d’ingresso non valeva la pena fare i corsi di recupero. Quindi è stato deciso che, per recuperare questa materia, lo studente avrebbe dovuto superare l’intero esame (linguistica, lettorato e orale)… non avendo però passato una parte mi sono ritrovato nella situazione di merda in cui quest’anno non riceverò la borsa di studio e probabilmente se non passerò il prossimo appello dovrò rendere i soldi dell’intera borsa di studio dell’anno passato…”

Si ha a che fare con un meccanismo di accreditamento infinito e artificioso: si attribuisce un debito ma si impedisce di colmarlo, non attivando specifici corsi di recupero. Non solo, i corsi di recupero vengono sostituiti con un esame del normale percorso accademico, ingenerando la palese contraddizione per la quale, pur dichiarando gli studenti “non idonei” e in debito formativo, si pretende di fargli colmare il debito accreditandosi regolarmente, conseguendo i crediti formativi di un esame. Da questa contraddizione il carattere puramente fittizio del “debito formativo”, il suo carattere strumentale.

Questo meccanismo infatti diventa complementare a un’inclusione differenziale, un accesso su un piano di principio e di diritto garantito universalmente, ma in realtà limitato e regolamentato da dispositivi di controllo (i test) ed esclusione attraverso la moltiplicazione degli sbarramenti imposti (accreditamento costante in percorsi curricolari ed extra-curricolari).

La complementarietà tra accreditamento e inclusione differenziale si stabilisce su un governo emergenziale del sistema delle garanzie sociali: la mancanza di investimenti e di manutenzioni nelle strutture diventa l’alibi perfetto per imporre ricattabilità e ulteriori sbarramenti. Entro queste dinamiche viene inscritta anche l’esperienza di Thomas.

“io e un mio amico”, prosegue Thomas, “eravamo nella stessa situazione: aspettando i ripescaggi ERSU ci siamo ritrovati, con la chiusura della casa di via Roma [ennesima chiusura della struttura, in questa occasione a causa di perdite nel sistema idrico, ndr] a doverci cercare una camera in affitto. Oltre il danno anche la beffa, perchè abbiamo dovuto cercare la casa entro il 1° dicembre – per non perdere la borsa di studio – ed era già metà novembre.”

Lo stato di abbandono delle case dello studente di Cagliari, nel quadro complessivo di dismissione del welfare studentesco, si traduce, nei processi di indebitamento del precariato giovanile in formazione, in una precisa scelta politica che soddisfa una compatibilità di fondo con un mercato degli affitti gonfiato a dismisura dall’ingente numero di appartamenti e stabili sfitti. 170 euro per un posto letto in una camera doppia in un umidissimo seminterrato del centro storico, così si quantifica l’impoverimento giovanile.

La mancanza di reddito indiretto – servizi, tutele, etc. – dev’essere colmata con una fonte di reddito diretta: un lavoro qualsiasi, in nero, una serata ogni tanto. Thomas ora sta “lavorando all’ippodromo come cameriere per 30 euro a serata”. Anche questo un impiego parte dei progetti per il rilancio dell’occupazione giovanile della Regione? Non neghiamo ci sia una parentela: la stessa produzione di precarietà.

Su questi soldi, buoni giusto per coprire l’affitto, grava sempre però lo spauracchio del debito formativo da colmare, pena l’indebitamento materiale con l’ERSU: “a breve avrò un esame e solo con l’esito positivo di questo potrò tenere i soldi. Il lavoro me lo sono dovuto cercare… anche perchè se l’esame va’ male devo rendere i soldi!!!”.

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Bisogna riprendere in mano la domanda iniziale. Cosa significa indebitamento studentesco? Non possiamo accontentarci di una lettura sociologica. Sappiamo bene che il mondo della formazione si ristruttura sempre più in un processo ad alta valorizzazione capitalistica profondamente diversificato al suo interno. Se mantiene, in via di principio, una vocazione all’inclusione universalistica (perché senza saperi diffusi e condivisi non c’è riproduzione sociale e dunque possibilità di estrarre da questa plusvalore) allo stesso tempo il controllo sulle forme della valorizzazione sociale, sulla nostra formazione dunque, si esercita con l’imposizione di dispositivi di disciplinamento materiale quali la precarizzazione delle condizioni di riproduzione del proletariato in formazione e il suo indebitamento. Non serve controllare le statistiche sull’interruzione dei percorsi formativi alla laurea di primo livello per capire come tutto questo conduca, in termini quantitativi, a fenomeni di “esclusione differenziale” più che di inclusione.

Allora questo genere di domanda – che cosa significa per noi indebitamento studentesco? – deve aggredire le nostre esperienze soggettive articolando da queste un metodo che ci permetta, rintracciando i singoli processi, di ricomporre e sviluppare socialmente la potenza dei soggetti impoveriti, di affermare comunemente le loro istanze i loro bisogni, le nostre istanze i nostri bisogni. Dobbiamo ripartire dai rapporti concreti in cui siamo presi per iniziare a ragionare comunemente su come sottrarci all’impoverimento, negarlo e nel conflitto riprenderci spazi, reddito e ricchezza.

Clausura a Sant’Efisio? Lottiamo per riaprire il nostro college!

Oltre il danno, la beffa. Il College Sant’Efisio, struttura pubblica – perché finanziata con soldi pubblici, ma privata – perché in possesso della Curia, la cui ristrutturazione è costata alla Regione Autonoma Sardegna oltre 18 milioni di euro (soldi pubblici, quindi soldi nostri) è uno dei termini di soluzione imposti dall’ERSU agli studenti per l’emergenza case dell’autunno 2012. Quando, davanti agli occhi, due case dello studente sono chiuse per inagibilità e i progetti per la costruzione di nuove case sono totalmente assenti ma, voltandoci alle spalle, vediamo strutture abitative nuove di zecca come quella del College Sant’Efisio, riesce difficile credere all’escamotage della crisi economica come giustificazione della totale mancanza di investimenti nel mondo della formazione.

L’accordo ERSU-College prevede un versamento nelle casse della Curia di circa 260 euro al mese per posto letto, accordo che continua a depredare le casse pubbliche dirottando il denaro verso i privati.

Abbiamo pagato il College e stiamo pagando gli affitti al College. Non basta ancora. La direzione del College ha imposto che la struttura sia divisa in settori femminili e settori maschili. I criteri di assegnazione dei posti letto hanno dovuto sottostare a questa imposizione: questo ha determinato che i primi assegnatari “aprissero” i piani rispettivamente a maschi o  femmine. Quindi: la prima ragazza che ha preso la prima stanza al primo piano ha determinato (senza volerlo) che quel piano fosse destinato solo alle ragazze, e così per gli altri piani. Un solo piano è stato “aperto” da un ragazzo. Alla fine delle assegnazioni uno dei piani femminili è rimasto pressoché vuoto, ma i ragazzi meritevoli della singola non hanno potuto avere accesso al diritto abitativo perché la direzione del College ha negato la possibilità di poter creare un piano misto.

Quella struttura è nostra, pagata da noi. Ci hanno fatto pagare per costruirla, ci stanno facendo pagare per abitarla, e ora ci impongono delle regole assurde per poterci abitare. Dalla Curia s’impone un regime per seminaristi.

Clausura a Sant’Efisio? No! Nulla di regalato, riprendiamoci quello che ci spetta! RIAPRIAMOLO!

 C.U.A. Casteddu

Assemblea contro i tagli all’università Martedì 9

Le soluzioni proposte dall’ERSU in seguito alla chiusura di due case dello studente stanno creando notevole disagio agli studenti.
Il College Sant’Efisio, pagato con i soldi della regione, percepisce un compenso maggiore per gli affitti rispetto a quanto l’ERSU da per ogni studente costretto ad affittare stanze per tre mesi, 260 contro 200 euro.
Affitti che presumibilmente potranno solo essere in nero vista la difficoltà nel trovare qualcuno che ti permetta di fare un contratto per soli tre mesi.

Laddove questa rappresentanza non è capace di garantircelo, siamo noi che dobbiamo incontrarci tutti assieme – abitanti nelle case, borsisti, idonei non beneficiari, studenti non idonei – per discutere la situazione e costruire da noi una soluzione alternativa.

Riprendiamoci il presente per garantirci il futuro.
INCONTRIAMOCI Martedì 9 ottobre alle 11 al Magistero, via Is Mirrionis 1.

“Piccolo manuale sul discorso della governance ad uso delle nuove generazioni” a cura di Daniela Noli, Presidente ERSU

L’ordine del discorso nelle politiche sulla nostra vita.

No, forse ci siamo sbagliati. Il dialogo – bella parola eh – c’è. Vogliono parlare con tutti noi. “Confrontarsi”, dicono. Ma su cosa poi? Come studenti che hanno deciso di lottare per opporsi ai saldi di fine estate dell’ERSU non ci ricordiamo di aver desiderato ancora alcun tipo di confronto… mah. Piuttosto, questo sì, vorremmo chieder conto di quanto ci spetta e poi organizzarci per prendercelo. Questo riguarda noi però. Altro capitolo, anzi altro volume.

Capitolo 1. Il mezzo di comunicazione: uso dei social network.

Succede che la Presidente dell’ ERSU, Daniela Noli, decide di interloquire con chi ha iniziato a parlare di un sistema di ruoli, di rapporti di potere e di politiche di impoverimento nella gestione della dismissione del welfare studentesco, anche a Cagliari.

Con uno stile amicale, un’informalità al limite del confidenziale, la Noli decide che il mezzo più adatto per comunicare con “i ragazzi” è facebook. Siamo pure nel tempo del 2.0, o no?

Chissà, forse ha pensato che i social network sono zone franche, innocue perché presidiate da “i giovani” – sì “i giovani”, una di quelle classi anagrafiche che abbiamo scoperto anche essere valide categorie politico-sociologiche quando serve reintegrare in un codice di compatibilità i nostri comportamenti sociali privandoli di qualsivoglia possibilità di significazione autonoma dell’esistente per la trasformazione futura; insomma, quei “giovani” sulla bocca del Francesco Alberoni di turno, l’esperto opinionista (preferibilmente docente universitario) su un qualsiasi noioso salotto televisivo di un assonnato primo pomeriggio. Chissà, pare che i salatissimi “master in pubbliche relazioni” che ci propinano insegnino molto su questo. Su questo? Ah sì, ci insegnano molto su di noi… a noi. Daniela Noli sicuramente ne sa qualcosa, dice di essere stata “formatrice di politiche giovanili”. Figuariamoci se non saprà dirci qualcosa su quello che siamo e che vogliamo.

Sì, forse la Noli non ha riflettuto bene sul fatto che anche i social network sono luoghi in cui si producono discorsi e appartenenze, luoghi dove si costruisce resistenza o si impone accettazione.

Capitolo 2. Relazionarsi e disciplinare entro un ordine del discorso.

Ad ogni modo, la governance nella crisi, ovvero le strategie di dismissione del welfare tramite l’austerity, disciplina le istanze sociali nella relazionalità. La Noli lo intuisce bene questo. Eccola quindi su facebook. Per dialogare, per proporre un discorso, per farlo consumare e consumarci in questo.

Ciò che conta in fondo per la governance è “produrre e far consumare discorso” in modo da risolvere in questa reitarata pratica consumatoria la “mancanza a essere”, del soggetto. Lacan forse si esprimerebbe così. In questo modo infatti parlava del “nuovo discorso”, sostituto del “discorso del padrone”; il “discorso del capitalista”1 per Lacan, il “discorso della governance”, per noi.

I termini della relazionalità del linguaggio allora diventano limiti di applicabilità delle politiche sulla vita proprio perché la vita stessa sulla relazionalità si produce. Allora bisogna organizzare un discorso farlo consumare – più che condividerlo – per produrre forme di vita disposte ad accettare un ordine di declassamento materiale delle nostre condizioni. Le politiche di austerità – la richiesta di sacrifici, si impone anche e soprattutto con un discorso preciso. Il discorso – la sua forma, i suoi vincoli e i suoi interdetti – produce nuovi legami sociali, nuove relazioni di forza e nuove soggettività a queste relazioni assoggettate. “Che cos’è un discorso? È ciò che nell’ordine… nell’ordinamento di ciò che si può produrre grazie all’esistenza del linguaggio, ha funzione di legame sociale”2.

Eppure, in quanto i rapporti sociali possono essere forzati e trasformati, questo discorso sconta i suoi limiti davanti alla potenza autonoma del desiderio dei soggetti che vorrebbe nominare.

Capitolo 3. Ristrutturare l’offerta per pacificare: i limiti della domanda.

 

Infatti, la governance produce oggetti desiderabili fissando però la scarsità di questi ed organizzandola discorsivamente, affinché sempre ci sia consumo governabile (limite che è anche la dimensione della subalternità della soggettività prodotta). Ogni volta che, nella forzatura dei rapporti sociali, si domanda di più, la governance ristruttura la propria offerta fino a quando questa ancora non viene consumata. Eppure, sempre come osserva Lacan, questa pratica “astuta” è “destinata a scoppiare. Perché è insostenibile (…) va così velocemente da consumarsi, si consuma fino a consunzione”3. Proprio su questo limite: sulla capacità di formulare una domanda non reintegrabile salta la possibilità per la governance di disciplinare i corpi e le vite entro l’ordine del discorso da essa stessa prodotto.

Non solo, c’è la possibilità di pervenire all’ “offerta minima” del discorso della governance portandolo alla sua ristrutturazione ultima. Lo stadio in cui il discorso perde le sue qualità affabulatorie e riduce le sue figure concettuali ai limiti di espressione delle soggettività che produce. Questo è capitato a Daniela Noli, Presidente dell’ERSU, la quale, incalzata da poche domande che presto hanno consumato il suo discorso, si è poi fatta travolgere dalle idiosincrasie del suo ruolo mettendo così a nudo i sitemi di costrizione discorsiva nella concretezza degli obbiettivi funzionali alla formazione di soggetti capaci di consumare solo entro i limiti di ciò che è reintegrabile.

Ecco un saggio del breviario della Noli.

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