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Mense ERSU: il piatto piange!

il-piatto-piange-L-z0gx9nDando un’occhiata alla trasformazione del servizio ristorazione ERSU negli ultimi anni, un dato politico emerge forte e chiaro: aumentano i prezzi, peggiora la qualità.

E’ così infatti che se uno studente di seconda fascia nel 2007 pagava 1.80 a pasto, quest’anno coloro il cui ISEEU (Indicatore della Condizione Economica Equivalente) non supera gli undici mila euro, limite della prima fascia, si trova costretto a dover sborsare 2 euro. Emblema della condizione studentesca, su cui si abbatte l’aumento del costo dei pasti, sono gli idonei non beneficiari, ovvero quelle strane figure che pur avendo diritto subiscono l’apparente carenza di fondi da parte dell’Ente per il Diritto allo studio. Per loro è previsto un massimo di 240 pasti gratuiti esclusivamente nel periodo delle lezioni. Se si è iscritti al primo anno, manco quello. Non se la passano meglio coloro che sono beneficiari di borsa di studio e alloggiano presso Casa dello Studente (sempre che questa non sia chiusa per lavori causati da anni di indifferenza ed incuria da parte di chi se ne sarebbe dovuto occupare) che, terminati i 240 pasti gratuiti, si trovano nella simpatica situazione di non poter fare la spesa e cucinare in casa (il regolamento non lo consentirebbe). Sono esclusi invece dal diritto al pasto gratuito coloro che pur essendo beneficiari sono pendolari (o risultano tali perché il padrone di casa affitta in nero). A coloro che non hanno la possibilità di permettersi il costo del servizio, la risposta dell’ERSU, che in questo rivela la propria natura aziendalista, interessata esclusivamente al ripianamento del proprio bilancio, è chiara: ARRANGIATEVI!                                                                                                            

Non solo. Da quest’anno, l’Ente regala agli studenti la possibilità di contribuire ulteriormente alla gestione del sistema attraverso l’invenzione di un contributo di un euro, richiesto al momento del rilascio della tessera (come se non bastasse l’aumento esponenziale delle tasse).

A tutto ciò corrisponde un servizio tutt’altro che efficiente. Coloro che non arrivano in mensa all’orario di apertura devono rassegnarsi all’idea di fare una lunga fila, di cui non sono certo responsabili i lavoratori, chiamati a sopperire alla carenza di personale in cambio di uno stipendio misero, sperando di trovare da mangiare o dovendosi sbrigare perchè la mensa chiude. E la domenica? Giornata di riposo per i tanti studenti fuori sede si potrebbe andare in mensa, per evitare di dover cucinare in casa.   No, da qualche mese a questa parte questo non è possibile. La chiusura della mensa di Via Trentino, l’unica aperta la domenica, a partire dal mese di settembre, per lavori di ampliamento e ristrutturazione ha tolto anche questa possibilità. Qualcuno potrebbe dire: preferite mangiare cibo riscaldato, fettine che sembrano suole di scarpa con posate di plastica (nella migliore delle ipotesi due o tre si distruggevano nel tentativo)? Ma di chi è la responsabilità del fatto che per anni questa fosse la norma?

Tutto questo è il frutto di una chiara scelta politica. La stessa che fa sì che, in un contesto come quello cagliaritano dove la sola mensa di Via Premuda è a gestione diretta ERSU, un servizio sociale fondamentale si trasformi in terra di conquista per i privati. Lo studente è lasciato solo dalle associazioni della rappresentanza studentesca, sempre più impegnate a dialogare con le istituzioni responsabili di questo sistema e a sedare gli animi degli studenti ogni volta che questi provano ad alzare la testa. Non si può non pensare a quelle “nuove forme di finanziamento” evocate da Monti per il servizio sanitario nazionale, che si inseriscono in un più ampio progetto (quello delle esternalizzazioni) di svuotamento del pubblico a tutto vantaggio dei privati. L’esternalizzazione dei servizi tanto sbandierata come portatrice di efficienza, in realtà, come mostra la gestione del servizio ristorazione ERSU, non è altro che fonte di impoverimento, ed emblema del progressivo isolamento in cui vivono studenti e lavoratori, lasciati soli in una costante condizione di precarietà ed incertezza.

Costruiamo, tutti insieme, studenti e lavoratori una lotta dal basso che porti alla riappropriazione del servizio!

 

Ripartire dalla coperta corta delle borse di studio: ci organizziamo per rispondere alle minacce

Cagliari. Il 15 gennaio nella facoltà di Ingegneria si è tenuta un’assemblea studentesca convocata a seguito del caos scatenato dall’ Ersu dopo un ricorso fatto da alcuni studenti per chiedere l’incremento delle borse di studio.

L’assemblea è stata imposta dagli studenti borsisti per chiedere spiegazione del ricorso promosso dalla rappresentanza studentesca, un ricorso rispetto al quale l’Ente per il diritto allo studio, senza mezzi termini, ha risposto con minacce: minacce di rapina.

Infatti, l’Ersu di Cagliari, in seguito ad un ricorso promosso dalla rappresentanza studentesca che vorrebbe dimostrare l’illegalità dell’importo delle borse di studio erogate dall’ente (più basse rispetto al minimo previsto ai sensi del DPCM 2001), ha risposto che avrebbe chiesto la restituzione delle borse di studio ad alcuni beneficiari (circa 300) per poter integrare le borse dei ricorrenti.

Quale strumento ha scelto per notificare una scelta simile? Il più vigliacco: una raccomandata personale.

Durante l’assemblea l’avvocato dell’associazione promotrice del ricorso ha spiegato i termini del ricorso, rassicurando sul fatto che, a termini di legge, l’ERSU non sarebbe in diritto di chiedere la restituzione delle borse. Questo almeno è stato il parere della sua consulenza legale.

Tuttavia ben presto nel corso della discussione è apparso chiaramente come gli strumenti di organizzazione e lotta non possano essere limitati ad un’azione legale. Il reale problema dell’Ateneo, per quanto riguarda le borse di studio, si chiama sottofinanziamento e passa per tutte le politiche che vanno sotto il nome di “spending review”, pareggio di bilancio e austerità. Una sistematica strategia di impoverimento che, sommata ai regali fatti ai privati ed alla curia, mira alla distruzione del welfare studentesco.

Qual è il risultato di queste politiche? Sicuramente un trend crescente del numero di coloro che sarebbero idonei ma per mancanza di fondi non possono beneficiare delle borse di studio; ad oggi la percentuale si aggira intorno al 42% ed è destinata a crescere.

Il numero di coloro che, nonostante meritino e abbiano realmente bisogno di una borsa di studio, non ne beneficiano crescerà sin quando non saremo in grado di bloccare questo sistema nei suoi ingranaggi a noi più prossimi, ovvero iniziando, come deciso dall’assemblea, con l’organizzarci per rifiutare le minacce di chi vorrebbe dirci che per noi la possibilità di costruirci un futuro non è più garantita.

A partire dall’assemblea di ieri nei prossimi giorni verrà redatta una lettera collettiva indirizzata all’ERSU in cui tutti, come studenti borsisti, idonei non beneficiari e ed esclusi dalle graduatorie, manifesteremo di non aver gradito affatto le minacce che ci sono state rivolte via raccomandata.

Noi, come collettivo, non possiamo che opporci ai ricatti di un ente, l’Ersu, che ha deciso di gettare la maschera e preferisce perdere la faccia ricattando gli studenti e cercando di creare un vuoto intorno a chi lotta, invece di esigere dalla Regione i soldi che spetterebbero agli studenti. Inoltre lanciamo un appello a tutti coloro che hanno ricevuto la raccomandata Ersu: mettiamoci in contatto per andare a lanciarle in faccia al mittente.

Non una borsa indietro, nessun altra minaccia!

Verso un appuntamento di lotta!

 

PRODUCI, CONSUMA, CREPA! Il destino dello studente moderno

Nuovo anno accademico, nuove tasse, nuovi attacchi agli studenti!

Francesco Profumo, ministro dell’istruzione, Università e Ricerca:<< I fuoricorso hanno un costo anche in termini sociali >>

F.P. << Un po’ di bastone e carota. Questo è un paese che ha bisogno di essere trattato in questo modo. E dobbiamo avviare questo processo >>

Michel Martone, viceministro del lavoro:<< Dobbiamo dire ai nostri giovani che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa >>

Questa e altre dichiarazioni sono mirate alla criminalizzazione dello studente “non meritevole”, ennesimo stereotipo ideologico, come il disoccupato fannullone o il privato virtuoso, da usare come ariete di sfondamento delle poche barriere rimanenti a difesa del diritto allo studio.
L’università di Cagliari, in linea con i provvedimenti adottati dal sistema universitario Italiano, inserisce sovrattasse. A cosa servono? Ad eliminare i “perditempo” o ad ingrassare i conti?
La parola d’ordine è “meritocrazia”.

Emergono dal regolamento tasse (a pagina 10, link qui):

“sovrattassa di discontinuità”: gli studenti inattivi, ovvero coloro che nel corso di un semestre non superano almeno un esame, dovranno corrispondere per ogni semestre di inattività una tassa dal valore di 50€.
Questa tempistica non corrisponde a quella interna dell’organizzazione di ogni corso generando disagi e complicazioni. Un’ulteriore conseguenza è lo scavalcamento dell’autorganizzazione del singolo studente, limitandone l’organizzazione dello studio in base alle proprie esigenze, per esempio un lavoro che gli garantisca un reddito minimo necessario al mantenimento degli studi).

“Incremento tassa base per numero CFU conseguiti inferiore alla media del Corso”, determinata in base al numero di CFU dati in un anno: se il numero di questi è inferiore alla media dei crediti conseguiti dagli altri studenti del corso, si è “multati” con una sovrattassa del 10% sulla tassa base, non c’è scampo neanche per gli esentasse, che dovranno comunque pagare la sovrattassa calcolata sulla tassa base minima. Lo strumento della media, infatti, garantisce per sua stessa definizione la presenza di studenti al di sotto di tale media assicurando di fatto un’entrata sicura nel bilancio universitario già abbondantemente pagato attraverso le tasse (20?? milioni di euro dati dagli studenti dell’università).

Tutto ciò viene giustificato come adattamento al sistema meritocratico, stimolando così impegno e dedizione, creando soggetti produttivi integrati in sistema e società.

Esiste però un’altra chiave di lettura, quella dove il termine meritocrazia si traduce in creditocrazia: in un sistema meritocratico si applicano delle dinamiche volte alla creazione di soggetti sociali conformi al sistema economico-produttivo.
Ci troviamo davanti ad un vero e proprio processo di aziendalizzazione dell’università: i crediti diventano lo strumento di valutazione dell’efficienza produttiva dello studente, fagocitato all’interno del sistema del debito (che da formativo diventa reale, spianando la strada ad un classismo che puzza di vecchio). Con il sistema del “paghi per studiare”, “meno studi più paghi”, il livello di formazione è determinato prettamente in base al numero dei crediti, si sta premiando chi produce di più sulle spalle di tutti gli altri. Le contraddizioni più esplicite nascono da una situazione non paritaria di partenza, dovuta ad esempio a condizioni socio-economico-culturali precedenti, successivamente aggravate da questi metodi che conducono alla creazione di disparità tra gli studenti. Coloro che occupano i gradini più bassi, sono destinati all’ingresso in un labirinto senza uscita: l’impossibilità di colmare la distanza che nel peggiore dei casi porta all’abbandono degli studi. È questa l’università pubblica? Non si sta garantendo un servizio decente, e tanto meno lo si sta garantendo a tutti.
La dinamica del “punirne cento per premiarne uno” stimola la competizione secondo principi che trasformano la meritocrazia in creditocrazia, insomma, una “gara per l’impiegato dell’anno” che vede i crediti come unici strumenti di valutazione.
L’università viene privata del ruolo di servizio per diventare un luogo di produzione: gli studenti devono produrre (rendere bene e guadagnare crediti) o in alternativa pagare (chi può permetterselo).
Il fuori corso è diventato il nemico numero uno dell’università, da additare come costo sociale, che impedisce al mondo della formazione di migliorare il suo servizio, e da sfruttare come fondo cassa necessario al risanamento dei bilanci degli atenei.
Ci si pone nuovamente una scelta importante da prendere: continuare a lamentarci per i servizi sempre più scadenti, per le borse di studio in continua diminuzione e per le tasse sempre più onerose, o si può iniziare a reagire a questo stato di cose istruendoci, agitandoci e organizzandoci per riappropriarci di ciò che ci spetta e affermare che questa crisi non l’abbiamo voluta, non l’abbiamo creata e non abbiamo nessuna intenzione di pagarla.

Il nesso tra accreditamento e riproduzione nella creazione del debito studentesco

Le parole di uno studente sull’imporsi del debito a partire dalla selezione universitaria

Un’ipotesi di conricerca, incontro e costruzione di lotta partendo dai test d’ingresso.

Cosa significa parlare di indebitamento studentesco? Per il futuro prossimo possiamo ragionevolmente prevedere la sopravvivenza – sebbene in forma sempre più sottofinanziata e monetizzata – degli istituti tradizionali di beneficio per il diritto allo studio (borse, alloggi, ristorazione, agevolazioni nella tassazione etc.) in favore dei “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi”. Eppure, accanto alla spettralizzazione del welfare, si scorge avanzare un complesso di dispositivi sempre più invasivi di finanziarizzazione dell’auto-garanzia della formazione e della possibilità della formazione.

La dicotomia diritto/possibilità alla/della formazione articola una segmentazione interna a una medesima composizione, al fine di estrarre plusvalore direttamente dalla riproduzione sociale della stessa composizione. Agiscono infatti due processi opposti e complementari di valorizzazione capitalistica, nella fabbrica cognitiva: la produzione e la riproduzione di soggetti formati, ovvero l’investimento su un capitale umano e la sua rendita. Il primo è garantito come un diritto sub conditione dimostrando merito, crediti maturati alla mano; il secondo è un accesso – come una possibilità – a un circuito di valorizzazione comunque limitato.

Si tratta infatti di moltiplicare gli sbarramenti. Creare artificiosi debiti formativi significa creare e alimentare un sistema dell’accreditamento continuo al quale viene legata la possibilità della riproduzione materiale della propria condizione. Per continuare a studiare e colmare il debito formativo si finisce per indebitarsi concretamente. In questo passaggio, nel nesso tra accreditamento e riproduzione, si produce, in maniera coatta, una soggettività indebitata. La riproduzione è funzione dell’accreditamento e può esser soddisfatta solo da un indebitamento materiale.

I test non selettivi per i corsi di laurea triennali non a numero a chiuso – altro capitolo analogo andrebbe aperto sui test dei corsi di laurea a numero chiuso – rispondono esattamente a questa logica. Se non superati i test impongono inoltre l’iscrizione d’ufficio al tempo parziale. Si tratta di un altro meccanismo di disciplinamento dei tempi di studio e di lavoro: uno sbarramento che rinvia, entro una misura ad hoc, il traguardo dell’accreditamento affinché l’ateneo, nella sua “contabilità”, non si trovi con troppi “fuori corso”, risultando in questo modo “non virtuoso” e dunque non beneficiario della ripartizione della parte premiale del fondo di finanziamento ordinario statale.

Ecco gli effetti concreti, sulla materialità delle nostre condizioni, delle politiche d’impoverimento dell’università. Altro che una nominale “difesa della cultura”, verrebbe da dire…

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Discutendo con Thomas – vent’anni, studente di Lingue a Cagliari – abbiamo potuto rintracciare, attraverso una storia concreta, la materialità di uno di questi processi di indebitamento e dei dispositivi connessi.

Racconta Thomas: “io ho maturato il debito al test d’ingresso per quanto riguarda tedesco e la risposta che mi è stata data dalla segreteria o dalla docente – non mi ricordo – è stata che essendoci stati pochi studenti ad aver conseguito il debito in tedesco al test d’ingresso non valeva la pena fare i corsi di recupero. Quindi è stato deciso che, per recuperare questa materia, lo studente avrebbe dovuto superare l’intero esame (linguistica, lettorato e orale)… non avendo però passato una parte mi sono ritrovato nella situazione di merda in cui quest’anno non riceverò la borsa di studio e probabilmente se non passerò il prossimo appello dovrò rendere i soldi dell’intera borsa di studio dell’anno passato…”

Si ha a che fare con un meccanismo di accreditamento infinito e artificioso: si attribuisce un debito ma si impedisce di colmarlo, non attivando specifici corsi di recupero. Non solo, i corsi di recupero vengono sostituiti con un esame del normale percorso accademico, ingenerando la palese contraddizione per la quale, pur dichiarando gli studenti “non idonei” e in debito formativo, si pretende di fargli colmare il debito accreditandosi regolarmente, conseguendo i crediti formativi di un esame. Da questa contraddizione il carattere puramente fittizio del “debito formativo”, il suo carattere strumentale.

Questo meccanismo infatti diventa complementare a un’inclusione differenziale, un accesso su un piano di principio e di diritto garantito universalmente, ma in realtà limitato e regolamentato da dispositivi di controllo (i test) ed esclusione attraverso la moltiplicazione degli sbarramenti imposti (accreditamento costante in percorsi curricolari ed extra-curricolari).

La complementarietà tra accreditamento e inclusione differenziale si stabilisce su un governo emergenziale del sistema delle garanzie sociali: la mancanza di investimenti e di manutenzioni nelle strutture diventa l’alibi perfetto per imporre ricattabilità e ulteriori sbarramenti. Entro queste dinamiche viene inscritta anche l’esperienza di Thomas.

“io e un mio amico”, prosegue Thomas, “eravamo nella stessa situazione: aspettando i ripescaggi ERSU ci siamo ritrovati, con la chiusura della casa di via Roma [ennesima chiusura della struttura, in questa occasione a causa di perdite nel sistema idrico, ndr] a doverci cercare una camera in affitto. Oltre il danno anche la beffa, perchè abbiamo dovuto cercare la casa entro il 1° dicembre – per non perdere la borsa di studio – ed era già metà novembre.”

Lo stato di abbandono delle case dello studente di Cagliari, nel quadro complessivo di dismissione del welfare studentesco, si traduce, nei processi di indebitamento del precariato giovanile in formazione, in una precisa scelta politica che soddisfa una compatibilità di fondo con un mercato degli affitti gonfiato a dismisura dall’ingente numero di appartamenti e stabili sfitti. 170 euro per un posto letto in una camera doppia in un umidissimo seminterrato del centro storico, così si quantifica l’impoverimento giovanile.

La mancanza di reddito indiretto – servizi, tutele, etc. – dev’essere colmata con una fonte di reddito diretta: un lavoro qualsiasi, in nero, una serata ogni tanto. Thomas ora sta “lavorando all’ippodromo come cameriere per 30 euro a serata”. Anche questo un impiego parte dei progetti per il rilancio dell’occupazione giovanile della Regione? Non neghiamo ci sia una parentela: la stessa produzione di precarietà.

Su questi soldi, buoni giusto per coprire l’affitto, grava sempre però lo spauracchio del debito formativo da colmare, pena l’indebitamento materiale con l’ERSU: “a breve avrò un esame e solo con l’esito positivo di questo potrò tenere i soldi. Il lavoro me lo sono dovuto cercare… anche perchè se l’esame va’ male devo rendere i soldi!!!”.

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Bisogna riprendere in mano la domanda iniziale. Cosa significa indebitamento studentesco? Non possiamo accontentarci di una lettura sociologica. Sappiamo bene che il mondo della formazione si ristruttura sempre più in un processo ad alta valorizzazione capitalistica profondamente diversificato al suo interno. Se mantiene, in via di principio, una vocazione all’inclusione universalistica (perché senza saperi diffusi e condivisi non c’è riproduzione sociale e dunque possibilità di estrarre da questa plusvalore) allo stesso tempo il controllo sulle forme della valorizzazione sociale, sulla nostra formazione dunque, si esercita con l’imposizione di dispositivi di disciplinamento materiale quali la precarizzazione delle condizioni di riproduzione del proletariato in formazione e il suo indebitamento. Non serve controllare le statistiche sull’interruzione dei percorsi formativi alla laurea di primo livello per capire come tutto questo conduca, in termini quantitativi, a fenomeni di “esclusione differenziale” più che di inclusione.

Allora questo genere di domanda – che cosa significa per noi indebitamento studentesco? – deve aggredire le nostre esperienze soggettive articolando da queste un metodo che ci permetta, rintracciando i singoli processi, di ricomporre e sviluppare socialmente la potenza dei soggetti impoveriti, di affermare comunemente le loro istanze i loro bisogni, le nostre istanze i nostri bisogni. Dobbiamo ripartire dai rapporti concreti in cui siamo presi per iniziare a ragionare comunemente su come sottrarci all’impoverimento, negarlo e nel conflitto riprenderci spazi, reddito e ricchezza.

Il portiere aspetti sull’uscio… prima del lastrico. Il Rettore precarizza il servizio di portierato per risparmiare

Esprimiamo grande solidarietà ai lavoratori dei servizi esecutivi dell’Università di Cagliari, da ieri in mobilitazione.

L’esternalizzazione dei servizi da parte dell’Università pubblica si traduce nel peggioramento della qualità degli stessi e delle condizioni lavorative dei dipendenti coinvolti. Infatti la logica con cui questi servizi sono appaltati mira esclusivamente al rientro in bilancio dettato dal processo di aziendalizzazione dell’Università pubblica. Cosa comporta un’aziendalizzazione in un settore delicato come l’istruzione? Un settore che dovrebbe garantire un’alta qualità di formazione privilegia il proprio rendimento economico a scapito dei servizi offerti a noi tutti. Non siamo più disposti a tollerare la svendita di servizi universitari che ci appartengono e vedere soldi che ci spettano andare al miglior offerente che porta allo sfascio completo di un servizio pubblico fondamentale per tutti. L’aziendalizzazione non comporta solo uno scadimento nella formazione ma anche la precarizzazione delle condizioni lavorative, con una mancanza di continuità nel rapporto di lavoro, ovvero a una mancanza di reddito adeguato, condizione indispensabile per poter pianificare una vita dignitosa presente e futura.

L’Ateneo cagliaritano, il “Magnifico” rettore e gli annessi apparati decisionali ci danno un chiaro esempio del servile adeguamento alla politica dell’austerità. Ecco come: gli impieghi di portierato e multiservizi sono stati esternalizzati attraverso una gara d’appalto al ribasso il cui unico criterio di aggiudicazione è il “prezzo più basso” (guardare il bando, vedere per credere! ).

Il bando di gara viene necessariamente riproposto ogni due anni in quanto non soggetto a possibilità di rinnovo; questo comporta una condizione di assoluta precarietà dei lavoratori che ogni due anni si devono confrontare con condizioni dell’erogazione del servizio sempre diverse. Il gioco del bando al ribasso è stato vinto da una società che ha offerto sul piatto una somma inferiore del 30% circa rispetto alla commessa di partenza.  L’azienda, per soddisfare le direttive del bando fatto al ribasso, deve necessariamente “riorganizzare” l’orario settimanale (per cui alcuni lavoratori subiscono una riduzione da 40 a 15 ore per settimana) e ridurre la paga oraria che in alcuni casi tocca a malapena l’ammontare di 500 € mensili. Tutto questo è stato reso possibile dalla costituzione ad hoc di “sindacati” che sono dirette emanazioni dell’UNCI (Unione Nazionale Cooperative Italiane), i quali ignorano i vincoli del Contratto Nazionale “Servizi Integrati e Multiservizi”, vincoli che informano il bando di gara indetto dell’Università di Cagliari. Su questa negligenza a quanto pare l’Ateneo ha chiuso più di un occhio, su questa negligenza pende un ricorso.

Le cooperativi vincitrici, SFL (Lecce) e Leader service (Bari), hanno imposto un ricatto ai lavoratori: quello di essere assunti come socio-dipendenti; l’unica alternativa è quella di perdere il posto di lavoro. Cosa significa essere assunto come socio-dipendente? Vuol dire aderire allo statuto della cooperativa che garantisce solamente le tutele di base al lavoratore, senza aver diritto agli ammortizzatori sociali e precludendosi qualsiasi possibilità di muovere eventuali mozioni migliorative per la propria condizione. Inoltre, con questi nuovi contratti, si determina l’interscambio delle categorie attraverso il quale personale non qualificato si trova a dover svolgere mansioni diverse dalle proprie; le categorie normalmente adibite al servizio di portierato si ritrovano di fatto a dover adempiere ai compiti dei multiservizi senza averne le competenze.

Il meccanismo di interscambio tra le mansioni delle categorie contrattuali rivela la contraddittorietà del principio di accreditamento che si vuole metro di valutazione e selezione ma non corrisponde alle effettive richieste del mercato liberista, regolato invece esclusivamente da una competitività a ribasso. Dobbiamo intraprendere percorsi di studio eccessivamente lunghi e di conseguenza entriamo troppo tardi nel mondo del lavoro; questo determina un complessivo assetto di impoverimento sociale, dato anche dall’enorme investimento economico necessario a conseguire qualifiche che prevedono una strada segnata da una selezione dai tratti sempre più classisti. La formazione universitaria ci dà l’illusione di andare a coprire un posto di lavoro altamente qualificato ma il lavoro che ci rifilano, in nome della competitività, ha esclusivamente caratteri dequalificati e dequalificanti nella professione e nel salario. La formazione universitaria è ben lontana dal rispettare il suo ruolo storico di “ascensore sociale”. Ci raccontano ancora possa fornire una qualifica che permetta di accedere in posizione privilegiata al mondo del lavoro, ma nei fatti l’enorme valorizzazione di “capitale umano” prodotta nelle università si traduce, nello stesso mondo del lavoro, in riduzione delle nostre capacità e impoverimento della nostra ricchezza sociale alla quale pretendiamo, invece, venga riconosciuto reddito, dignità e libertà di organizzazione sociale, oltre la scarsità prodotta dalle regole di mercato.

In questi termini riteniamo che questa lotta sia comune e che non possa concentrarsi sulla pura rivendicazione del posto di lavoro, bensì debba essere una lotta capace di mettere in discussione gli assetti generali che regolano lo stesso mondo del lavoro e parta dal rifiuto dei suoi dispositivi di sfruttamento e impoverimento.

Non siamo disposti a subire anche per il portierato dell’Università la lezione d’austerity del Prof. Melis! No, la solita barzelletta non funziona più. Non siamo tutti sulla stessa barca. Melis, non sei vittima dei tagli, sei quello che decide di scaricare il costo dei tagli su lavoratori e studenti. Sei quello che vorrebbe racimolare qualche soldo a scapito del salario e della dignità di centinaia di persone.

Contro l’impoverimento, per 500 euro al mese, le porte dell’Università te le sbattiamo in faccia!

Dismissione e riappropriazione del welfare. L’ERSU e la governance al tempo della crisi.

Due case dello studente chiudono per una ristrutturazione improvvisa, anche se le fatiscenti condizioni degli stabili erano sotto gli occhi di tutti da tempo. Un tempo mai utilizzato per svolgere quelli che all’inizio erano dei normali lavori di manutenzione e che ora si sono trasformati in veri e propri lavori di smantellamento e ricostruzione.

 

La politica dell’impoverimento.

La tendenza, nemmeno tanto velata, replicata nel tempo con le ripetute chiusure per inagibilità della struttura di via Roma, è quella di produrre uno stato emergenziale capace di giustificare politiche di gestione a ribasso sulle tutele sociali speculando, inoltre, sull’allargamento della forbice tra beneficiari e idonei non beneficiari delle tutele al fine di deresponsabilizzare l’ente come soggetto garante del welfare studentesco. L’unica via d’uscita paventata dall’ERSU infatti, in obbedienza a questa strategia di deresponsabilizzazione, consiste nella monetarizzazione svalutata del servizio: accordare 108 euro per mensilità a chi avesse dovuto lasciare il proprio alloggio; con questa elemosina gli studenti sfrattati avrebbero dovuto coprire le spese di un affitto alternativo all’alloggio ERSU. Inutile dire che una cifra del genere fatica a soddisfare anche solo un terzo del costo della vita in città per uno studente fuori sede.

Non solo. Appare evidente come gli strumenti di garanzia collaterale predisposti dall’ente quali il contributo fitto casa, mostrino tutta la loro inadeguatezza e vengano, paradossalmente, fatti implodere dalle stesse politiche dell’ente. Un frangente “d’emergenza” come questo scopre il welfare di cartapesta predisposto dall’ERSU. Si tratta infatti di strumenti spesso e volentieri approntati secondo una logica di complicità e compatibilità con gli assetti di un mercato immobiliare degli affitti in città gonfiato a dismisura dall’ingente numero di appartamenti e stabili sfitti; strumenti privi di una reale base di finanziamento capace di ammortizzare – come scelta politica – l’impoverimento del reddito studentesco causato dalla speculazione immobiliare privata. Piuttosto, al contrario, si tratta di strumenti funzionali ad alimentare questa speculazione.

Governance: due passi avanti, uno indietro, un piede oltre la porta di casa.

Questo il quadro orientativo della politica dell’ERSU. Nessun confronto, nessuna proposta alternativa, nessuna mediazione. Eppure, in quanto siamo coscienti che solo le lotte producono la possibilità del cambiamento, abbiamo iniziato a costruire il nostro “NO” a questa politica. Ma bisogna ora interrogarsi sul carattere di questo nostro rifiuto e su quanto successo nel CdA Ersu del 6 settembre per poterne coglierne la portata politica e la dimensione di crescita strategica.

Sicuramente ci opponiamo in tutto e per tutto alle politiche di impoverimento perpetrate da ERSU e Regione ai nostri danni, ma sappiamo allo stesso tempo che non abbiamo la possibilità di contrattare alcunché. Vediamo crollare meccanismi storici di gestione della “cosa pubblica” che non possono non ridefinire anche le nostre stesse risposte politiche in termini di prospettiva e di organizzazione. Infatti, il controllo delle politiche sociali scivola verso una governance delle risorse scarse la quale prevede un’unilateralità del comando senza interesse alla mediazione, ma non per via di un’improvvisa quanto inspiegabile impennata autoritaria, quanto piuttosto perché si è ristrutturato l’assetto produttivo delle nostre società e dunque le forme del suo governo. Con questo nuovo livello dobbiamo confrontarci nelle nostre lotte.

Gli aggiustamenti della contrattazione, gestiti un tempo da livelli di rappresentanza – il sindacato studentesco e l’azienda, ad esempio – come presunta espressione di un corpo politico costituito da forze sociali diverse ma sinergiche, vengono riassorbiti, senza alcuna dialettica, nella rappresentazione di una virtualità della politica. Si simula nei comportamenti di un solo soggetto – l’ERSU in questo caso – la pluralità degli interessi sociali in conflitto incorporandone però di fatto la decisionalità ultima nel medesimo soggetto – sempre l’ERSU – pseudo garante di quelli che vengono spacciati per “interessi comuni”: comuni – secondo la loro narrazione – a un ente sottofinanziato e a una componente studentesca vittima dei tagli. Non a caso – interiorizzata questa retorica – vediamo il totale appiattimento della rappresentanza studentesca sulle posizioni dell’ente: i rappresentanti di UNICA 2.0 utilizzano la prima persona plurale per riferirsi al Consiglio di Amministrazione dell’ERSU.

Ma la retorica si smaschera. Così, dopo i primi nostri segnali di agitazione, debitamente preventivati e assimilati dalla controparte, abbiamo assistito a questo gioco dell’oca in cui – a differenza dei “classici” – l’ERSU ha prima fatto due passi avanti per poi farne uno indietro pur guadagnando comunque un passo oltre l’uscio di casa nostra per avvisarci dello sfratto imminente.

Il quadro principale, dopo il CdA del 6 settembre, si è dunque così ricomposto “per venire incontro agli studenti”, sebbene questi non fossero stati minimamente interpellati: via Roma resterà chiusa tutto l’anno; gli studenti che vi albergavano saranno ospitati nel College Sant’Efisio e nella Foresteria. Via Montesanto resterà chiusa per ristrutturazioni pesanti fino a gennaio, dopodiché gli studenti potranno farvi ritorno convivendo con il prosieguo dei lavori di piccola manutenzione. L’ERSU assegnerà agli studenti di via Montesanto un rimborso di 200 euro per i mesi di ottobre, novembre e dicembre. Questo rimborso verrà consegnato a dicembre con il primo assegno della borsa di studio. Queste decisioni sono state prese in Consiglio d’Amministrazione senza il diritto di replica da parte degli interessati e senza offrire margini di trattativa nello stesso CdA. O così o niente.

Che l’ERSU comunque realizzi la propria politica, prima sparando alto poi riaggiustando la mira a seconda del nostro umore, risulta un fatto conclamato. Basta osservare l’insufficienza di queste misure – senza neanche indagare ulteriormente le criticità esistenti intorno al Campus di Sant’Efisio, una struttura privata finanziata con soldi della Regione Sardegna, che ad oggi è costata la scandalosa cifra di 8 milioni e 8oo mila euro [sono stati stanziati altri 3 milioni e rotti. Il finanziamento ammonta a circa 12milioni].

Infatti l’ERSU politicamente va all’incasso: la proposta di coprire i tre mesi vacanti con soli 200 euro è altrettanto ridicola della prima proposta che elemosinava 108 euro! Come è possibile coprire i costi di affitto, bollette, gas, condominio con soli 200 euro? Qual è l’affittuario disposto a concedere una stanza in affitto per soli tre mesi? Saremmo costretti a mentire e ad affittare in nero? L’ERSU vuole questo? Probabilmente sì, non disdegnando quel sistema di compatibilità e complicità con il mercato immobiliare di cui sopra. Certo, che noi si corra anche il rischio di non ricevere indietro i soldi della caparra, alla resa dei conti, non è affare dell’ente! Come faranno coloro che versano in condizioni più indigenti ad anticipare i soldi di tre mensilità e della caparra (senza contare le varie spese fisse)? Chi ci assicura che via Montesanto riaprirà realmente a gennaio?

Indietro non si torna. Dalla dismissione del welfare alla riappropriazione.

Tutti i punti della politica di impoverimento sopra delineati (politiche di gestione a ribasso sulle tutele sociali, allargamento della forbice tra beneficiari e idonei non beneficiari, strategia di deresponsabilizzazione, monetarizzazione dei servizi, assenza di proposte alternative etc.) vengono toccati e soddisfatti. Questa finzione della governance – toglierti tutto per poi restituirti qualcosa facendoti però credere di non averti preso nulla ma, anzi, di averti tutelato e garantito – funziona come un vero e proprio dispositivo di disciplinamento dell’insubordinazione sociale contro le misure di impoverimento in tempo di crisi.

Ma, appunto, per poter costruire un nostro “NO” forte, è necessario allora cogliere l’elemento essenziale che sta al fondo di queste politiche, bisogna cogliere la natura della governance in quanto – come detto – interprete dell’assetto produttivo delle nostre società.

Partendo anche e soprattutto dal motore della conflittualità endogena delle classi subalterne, storicamente abbiamo visto saltare il patto storico tra capitale e lavoro che ha retto le socialdemocrazie occidentali novecentesche. Un patto basato sulla subordinazione della forza lavoro sociale al comando capitalistico in cambio delle promesse emancipative di quest’ultimo fatte di istruzione, sanità, trasporti, garanzie sociali etc. Questo storicamente è stata la natura del welfare nelle nostre società, uno strumento animato dall’ambivalenza dell’emancipazione e del disciplinamento.

È necessario interrogarci sulla natura del welfare ora; ora che è saltato il patto che lo ha fondato. La crisi degli istituti classici di rappresentanza, intesi come soggetti titolati a partecipare alla discussione su come organizzare l’attività produttiva e – come nel caso degli enti per la tutela del diritto allo studio – riproduttiva della società dev’essere interrogata partendo dal fatto che non c’è più discussione possibile perché non c’è più possibilità di organizzare entro la cornice dello stato e dei suoi sistemi di regolazione politica della conflittualità, la produzione sociale. Questo intendiamo, a più livelli, per crisi della rappresentanza e fine della mediazione.

Eppure resta il comando sul lavoro sociale, un comando che deve pur produrre profitto. Allora in società dove sempre più la produzione di ricchezza si autonomizza nelle relazioni sociali (capitalismo cognitivo) indipendenti dalla possibilità di un controllo proprietario (perdita di centralità del capitale fisso) osserviamo la tendenziale finanziarizzazione dei processi produttivi e dunque il divenire rendita dei profitti. Creare sbarramenti e privatizzare ciò che è socializzato, sono tutti dispositivi per catturare, artificiosamente, la produzione del lavoro vivo.

Dunque, in relazione al welfare studentesco ma anche alla natura del welfare in generale come “strumento inattuale”, osserviamo, da un lato, una continua erosione degli istituti classici di garanzia sociale, in quanto appunto portato residuale di un patto che non esite più, e pertanto intesi ormai banalmente come spese da tagliare (questo significa austerity, questo significa il sottofinanziamento dell’ERSU). Da un altro lato osserviamo però che il welfare classico trova una sua attualità, ristrutturandosi in tutta una serie di dispositivi che tendono a incanalare le istanze di reddito di un precariato giovanile diffuso o entro meccanismi di indebitamento coatto (vedi le conseguenze dell’aumento degli idonei non beneficiari, oppure, più esplicitamente,l’introduzione sempre più spinta di prestiti d’onore a “garanzia politica”, come il progetto “giovani sì” della regione Toscana) oppure in una risoluzione dei servizi in contributi monetari (il caso del “rimborso” di 200 euro in relazione alla chiusura della casa dello studente è il caso più lampante ma potremmo anche menzionare il fatto che l’affitto del posto alloggio è detratto dalla borsa di studio così allo stesso modo i pasti in mensa).

Rispetto a questo quadro non possiamo tornare indietro. Sappiamo però che la lotta contro questi dispositivi e contro la governance che li impone ha guadagnato per noi una sua dimensione specifica: se nessuna mediazione è possibile non abbiamo che la riappropriazione contro l’impoverimento.

Forte Village: una stagione all’inferno – Ricomporre la generazione precaria.

La stagione estiva volge al termine. Volge al termine “La stagione”, l’impiego stagionale di tanti giovani che in Sardegna durante l’estate riempiono le località turistiche della costa – da Villasimius a Pula alla Costa Smeralda – in cerca di un impiego capace di garantire un reddito che possa coprire l’altra stagione dell’anno, quella sfigata.

 Si tratta spesso di studenti, magari gli stessi che finiscono “fuori corso” perché impiegati in questo o in quel resort e quindi impossibilitati a sostenere esami nelle sessioni di giugno, luglio e settembre – ah no, giusto, l’Ateneo propone la soluzione di iscriverci come “studenti a tempo parziale” anche se lavoriamo “solo” per tre mesi all’anno, dodici ore al giorno di cui solo sei retribuite.

Si tratta spesso di studenti obbligati a “farsi la stagione” per “potersi pagare gli studi” – una delle tante espressioni logorate dalla frequenza del loro utilizzo ma che si traducono nell’esigenza di racimolare i soldi per poter sostenere nove mesi di affitto e di spese a Cagliari. Poi magari per le tasse si ricorre al welfare creativo di mammai e babbai, sempre che non si risulti “idonei non beneficiari” per insufficienza di fondi anche in famiglia.

Riportiamo un contributo apparso in rete che racconta una di queste vicende. Una storia che abbiamo vissuto più volte. Un neolaureato questa volta.

Vogliamo far circolare e condividere queste nostre storie perché crediamo che la costruzione politica del rifiuto della comune e generazionale condizione di sfruttamento debba passare preliminarmente per il riconoscimento reciproco. Ci vogliono subalterni non solo nelle gerarchie del villaggio vacanze ma subalterni nella produzione sociale in genere, la quale, pur affidata interamente a noi, è retta da rapporti che ci impoveriscono e ci rendono non padroni delle nostre vite. Come abbiamo visto questa continuità possiamo verificarla partendo dall’università stessa. Essa, per i dispositivi di segmentazione che la strutturano e che abbiamo sopra nominato (“iscrizione a tempo a parziale” e “fuori corsismo” per citarne solo alcuni) si configura come strumento principe di regolazione sociale di un’intera generazione precaria.

Ma raccontare non basta. Riconoscersi significa per noi uscire dall’individualità, ricomporre per rifiutare.

C.U.A. Casteddu

Forte Village: una stagione all’inferno.

Alcuni giorni dopo essermi laureato, 3 anni fa, avevo deciso di racimolare qualche soldo e ho pensato di sfruttare il mio brevetto da bagnino al meglio, se non altro per recuperare i soldi del corso e potermi permettere un viaggio con la mia fidanzata o i miei amici.

Fare la stagione come bagnino-facchino non è poi così difficile e si era presentata in breve l’opportunità di lavorare per il Forte Village a Santa Margherita di Pula, poche decine di chilometri da Cagliari.

di Daniele Garzia

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Lascia o Raddoppia

Francesco Profumo si trasforma in Mike Bongiorno:
“allora gentile universitario, cosa sceglie? lascia l’universita’ o le raddoppiamo le tasse.”

All’interno della spending review, la manovra “taglia tuutto” che dovrebbe portare secondo Mario Monti al pareggio di bilancio, spunta fuori tra le tante l’ennessima norma che va a pescare dalle tasche degli studenti delle universita’ italiane. Aumenti per tutti quegli studenti che non finiranno il percorso di studi nei tempi richiesti, aumenti che vanno dal 25% al 100%. Oltre il danno pero’ anche la beffa. Lo studente-lavoratore sara’ esente da questo aumento.
…Alzi la mano lo studente lavoratore che ha un contratto regolare..